Linkiesta

Il paese dei 100 giorni, dove la memoria è un optional

Tommaso Nannicini
Democrazia/#governo

Il resoconto del governo Letta sull’operato dei suoi primi 100 giorni è un documento utile. Preciso, chiaro, con tanto di riferimenti interattivi ai provvedimenti adottati. E diciamolo subito: il governo sta facendo il possibile di fronte a vincoli politici ed economici di non poco conto. Il presidente del consiglio è uno dei politici più competenti affermatisi nella Seconda Repubblica, che non ha certo brillato in quanto a qualità della classe politica. Detto questo, la lettura del documento lascia un po’ interdetti. Lo smarrimento non riguarda tanto il resoconto in sé, quanto lo stato del dibattito pubblico. Si ha l’impressione che l’Italia viva sospesa in un universo parallelo di primi 100 giorni, che si ripetono all’infinito, concatenandosi tra loro. Senza memoria del passato. Senza una visione minimamente condivisa del futuro.

Due esempi. Il governo ha ripristinato le pause minime tra contratti temporanei (10 o 20 giorni a seconda della durata del primo contratto) in vigore prima della riforma Fornero (che le aveva portate a 60 e 90). Ma chi e perché le aveva allungate? Quella misura era stata fortemente voluta dalla Cgil, nonostante fosse palesemente rischioso irrigidire i contratti temporanei durante una recessione. In ogni caso, la maggioranza di governo, esattamente la stessa di oggi, l’aveva approvata all’interno di un ridisegno complessivo della flessibilità in entrata e in uscita. Adesso, si fa marcia indietro facendo finta di niente.

Un recente studio nella Review of Economics and Statistics ha stimato i costi della volatilità delle politiche pubbliche in termini di minore crescita economica. Anche l’Italia paga probabilmente un costo del genere. La differenza è che di solito questa volatilità deriva dall’alternarsi di maggioranze con programmi lontani tra loro, mentre nel nostro paese sono gli stessi soggetti a fomentare la volatilità, passando da una scelta al suo contrario senza soluzione di continuità. È tutto un fare e disfare, di 100 giorni in 100 giorni.

Il secondo esempio riguarda le politiche contro la disoccupazione giovanile, per cui il governo ha stanziato 1,5 miliardi di euro per il programma “Garanzia per i Giovani” e 794 milioni in tre anni per il dramma dei NEET. Un tasso di disoccupazione giovanile che veleggia verso il 40 percento è senz’altro una priorità, ma le sue radici hanno più a che fare con i problemi strutturali del nostro mercato del lavoro che non con una crisi passeggera. Nei floridi anni ’80, il tasso di disoccupazione giovanile oscillava tra il 30 e il 35 percento. Anche allora non si contavano i programmi di breve periodo, da incentivi a servizi di formazione e orientamento. Sono stati davvero efficaci? A questo giro, non si potrebbe almeno prevedere che per ogni euro di spesa una frazione “X” sia usata per valutarne gli effetti, attraverso protocolli credibili e sottoposti al vaglio della comunità scientifica internazionale con opportuni bandi?

Basta esempi. Chiudo con una riflessione. Che cosa manca al nostro dibattito pubblico in generale, e a una maggioranza di governo nata con l’ambizione di dare dignità politica alle larghe intese in particolare? Mancano parole chiare sul passato. E una discussione franca sul futuro.

Scrive Letta nel documento sui 100 giorni: “vent’anni di confronto durissimo e muscolare lasciano segni e ferite”. Vero. Ma non ci si è solo scontrati in questi decenni. Si sono fatte delle scelte di governo, da una parte e dall’altra. Se siamo arrivati dove siamo è perché quelle scelte non si sono dimostrate all’altezza: cioè, non ci hanno tolto dal piano inclinato di un lento (e solo per il momento dolce) declino economico. Per nobilitare le larghe intese, rimuovendo il sospetto che siano una scusa per cercare qualche salvacondotto giudiziario da una parte o per tenere in vita una classe dirigente decotta dall’altra, servirebbe uno sforzo di sincerità in più. Non è la crisi internazionale a pesare sul nostro futuro, ma i nodi strutturali che nessuno ha saputo aggredire. Un’assunzione di responsabilità bipartisan sarebbe un primo passo in avanti.

Per carità, rispetto al futuro, è giusto che centrosinistra e centrodestra sviluppino visioni diverse. Ma su alcuni di quei nodi strutturali si potrebbero individuare tasselli condivisi, a patto di uscire dalla logica della “crisi” di breve periodo. Se sulla giustizia non c’è quel minimo di agibilità politica necessaria per seguire la strada tratteggiata da Angelo Panebianco sul Corsera, si discuta almeno degli altri grandi nodi su cui ci giochiamo la crescita potenziale: pubblica amministrazione, scuola, università, riduzione dello stock del debito, liberalizzazione di servizi e professioni. Su molti di questi temi, centrosinistra e centrodestra hanno legittimamente idee diverse. Ma per ognuno di essi esistono alcune riforme “di cornice” realizzabili in chiave bipartisan. Perché si tratta di creare infrastrutture di base necessarie per aumentare la produttività. Per esempio, Andrea Ichino si batte da anni per radicare nel nostro sistema d’istruzione meccanismi seri di valutazione e monitoraggio. Si cominci a far funzionare questa infrastruttura. Poi, centrosinistra e centrodestra si divideranno su come usarla. Per esempio, con quali dosi di differenziazione salariale tra docenti, o con quali meccanismi per l’allocazione delle risorse tra centri d’eccellenza o di disagio sociale.

Solo discussioni di questo tipo darebbero un senso alle larghe intese.Gestire l’esistente sperando che passi la nottata della crisi significa perdere altro tempo prezioso. E trasforma l’emergenza istituzionale che stiamo vivendo nell’ennesima occasione mancata. Non c’è da stupirsi se agli italiani resti poi quell’amara sensazione che il dibattito politico non meriti di essere preso troppo sul serio. Perché tanto domani è un altro giorno. O meglio: altri 100 giorni.

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