Tommaso Nannicini è un economista e vive in Spagna da due anni, dove insegna e svolge attività di ricerca presso l’Università Carlos III di Madrid. I suoi interessi di studio abbracciano l’economia del lavoro, l’econometria applicata e l’analisi empirica dei processi politici. In passato, ha studiato o lavorato presso l’Università di Firenze, l’Università Bocconi, l’Istituto Universitario Europeo, il MIT di Boston e il Fondo Monetario Internazionale. Per un periodo, ha pensato di darsi non all’ippica ma alla politica (ricoprendo vari incarichi locali e nazionali prima nell’associazionismo della diaspora socialista, e poi nei Ds e in LibertàEGUALE). Ma la politica, a quanto pare, aveva altri piani.
D. In passato hai messo in guardia i riformisti italiani dall’approccio di Zapatero all’economia, tutt’altro che liberal e blairiano. La situazione da allora è cambiata?
R. Non c’è niente di particolarmente sbagliato nell’approccio di Zapatero ai temi economici (che, sia detto per inciso, non sono comunque il suo forte: non per niente la linea economica è stata appaltata al sempre più forte ministro Solbes). Ma, a mio parere, la cultura economica di Zapatero è quella di un socialdemocratico classico, che poi non si fa scrupoli a compiere alcune scelte “liberiste” per dare fiato all’economia quando assume responsabilità di governo. Quelle scelte, tuttavia, non vengono mai coerentemente inserite dentro una nuova cultura economica da sinistra liberale, dentro una visione aggiornata dei confini tra Stato e mercato. Vengono prese e basta. Poi, nelle assemblee, le parole d’ordine sono quelle del rapporto privilegiato con i sindacati, della lotta alla precarietà (e poco importa che l’obiettivo programmatico di Zapatero per la prossima legislatura sia semplicemente quello di ridurre l’incidenza del lavoro temporaneo dal 33% al 25%, sempre lontano, ad esempio, dal 13% italiano) e di maggiori aiuti pubblici allo sviluppo dei Paesi poveri (senza nessun accenno alla liberalizzazione del commercio internazionale). Insomma, sui temi economici, c’è un ritardo culturale più che politico. Ritardo che accomuna, a mio avviso, la sinistra dell’Europa continentale, in contrapposizione a esperienze più avanzate nei Paesi anglosassoni e scandinavi.
D. Il “socialismo dei cittadini” è solo un’efficace formula mediatica o contiene una possibile risposta alla crisi della sinistra?
R. Direi che è una parte della risposta, ma non “la” risposta. Una sinistra al passo con i tempi e coerentemente liberale deve mettere al centro del suo orizzonte programmatico i bisogni di auto-realizzazione dell’individuo. E in questa ottica sono senz’altro cruciali i diritti di terza e quarta generazione, l’allargamento degli spazi di cittadinanza e la diminuzione delle discriminazioni. Ma non dobbiamo dimenticarci che anche i diritti di prima generazione (civili e politici) e quelli di seconda (economici e sociali) dovranno svolgere un ruolo centrale e aggiornato, nel senso che la loro difesa nelle società di oggi richiede strumenti di intervento del tutto nuovi rispetto alle risposte socialdemocratiche classiche. Su questo, il socialismo dei cittadini dice ancora poco. Inoltre, c’è un altro aspetto interno alla Spagna che va ricordato parlando delle scelte di Zapatero in tema di diritti: il ritardo culturale da cui si partiva. In Spagna, per esempio, il tema della violenza di genere è ancora un dramma sociale di primaria importanza. Non è un caso quindi che qualsiasi sforzo di modernizzazione del Paese debba porre al centro del suo messaggio l’eguaglianza di genere e la lotta a ogni tipo di discriminazione.
D. Nonostante tutto, in Spagna la principale forza della sinistra, il Psoe, contiene ancora nel nome un riferimento alla classe operaia. Un fatto un po’ strano per noi, abituati da un paio di lustri a frequenti cambi di nome.
R. Direi che si tratta di una ragione principalmente storica. Legata al ruolo svolto dal Partito socialista nell’opposizione clandestina al franchismo e all’egemonia che ha saputo instaurare a sinistra negli anni della transizione. Il Psoe (al pari del suo antagonista, il Pp) è un classico partito “pigliatutto” come se ne vedono in tante democrazie bipolari. E dico questo pensando a due aspetti, uno positivo e uno negativo. L’aspetto positivo è che il Psoe è un partito a vocazione maggioritaria, che tende a convergere al centro per vincere le elezioni. Non è un caso che proprio in questi ultimi mesi, approssimandosi le elezioni del marzo 2008, Zapatero abbia chiaramente cercato di rendere meno conflittuale e più moderato il suo messaggio, sia in campo economico sia rispetto al tema drammatico del terrorismo basco. Il secondo aspetto, quello negativo, riguarda il fatto che i grandi partiti spagnoli agiscono ormai come comitati elettorali ai vari livelli. Non sono la sede di un dibattito approfondito e trasparente tra linee politiche alternative, ma il semplice luogo di compensazione degli equilibri tra gruppi dirigenti. Involuzione che chiamerei “anti-politica” (altro che Beppe Grillo!) e che purtroppo conosciamo bene anche noi in Italia.
D. L’impressione è che con Gonzales prima, con Aznar poi e ora con Zapatero la Spagna stia conoscendo un eccezionale periodo di modernizzazione e di crescita. Quale ruolo gioca il fattore politico in ciò?
R. La politica ha senz’altro fatto molto nel darsi un insieme di regole (formali e materiali) che permettano lo svolgersi di una competizione bipolare utile e ordinata, in cui lo scontro politico assume anche toni molto aspri, “alla spagnola”, ma non tracima mai nell’immobilismo del muro contro muro. Chi deve decidere viene messo nelle condizioni di farlo proprio dal suo avversario, che sa che la prossima volta potrebbe toccare a lui. Il tutto in una chiara distinzione dei ruoli e delle responsabilità. Detto questo, non direi che la politica sia l’unico tassello per spiegare la crescita e il dinamismo della Spagna. La politica fa il suo mestiere e la società fa il resto. Se dovessi isolare un segreto del successo recente della Spagna, direi che è la capacità di “selezionare”. Che si tratti del mondo delle imprese, della cultura, della ricerca o dei rapporti territoriali, non c’è l’ossessione dell’omogeneità. Si sa che per assumere posizioni di leadership sul piano internazionale, si devono privilegiare alcune realtà, quelle più dinamiche e competitive. E poco importa se altre, almeno in questa fase, resteranno indietro. Inutile aggiungere che un briciolo di selettività in più non farebbe male anche a noi cugini italiani.
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