Per spiegare la sconfitta elettorale dell’Ulivo nel 2001, si è fatto ricorso alla categoria del “riformismo senza popolo”. Facendo intendere che l’azione dei governi di centrosinistra- coerentemente riformista- non è stata sufficientemente spiegata agli italiani. In realtà, il riformismo senza popolo non è dipeso da un limite di comunicazione, ma da un preciso errore politico: il riformismo senza convinzione. Il nostro riformismo è stato senza convinzione, perché apparentemente inconsapevole delle ragioni delle scelte compiute in termini di efficienza ed equità. I processi di modernizzazione del sistema economico che il centrosinistra ha avviato sono stati vissuti da molti come una necessità tattica, dettata dall’appartenenza all’UE o dall’esigenza di accreditamento presso settori ritenuti ostili alla sinistra. Il nostro riformismo è stato senza convinzione, perché non si è basato su una scelta univoca di linea politica. E in mezzo alle nostre incertezze si è inserito il centrodestra, facendo passare il messaggio (in verità paradossale) che la sinistra italiana è portatrice di un’idea di intervento pubblico ostile allo sviluppo e al libero dispiegarsi delle energie imprenditoriali.
Per un’aggiornata teoria del ruolo economico dello Stato è da qui che dobbiamo ripartire: dalla costruzione di una cultura economica moderna e condivisa dalla maggioranza del nostro gruppo dirigente. E questo processo di rinnovamento non può che ruotare intorno a un’aggiornata teoria del ruolo economico dello Stato. Dobbiamo prendere definitivamente coscienza che il messaggio storico della sinistra durante il secolo socialdemocratico è diventato- per dirla con Amato- “strutturalmente minoritario”. Questo messaggio era la promessa rivolta alla maggioranza dei cittadini di fornirli della protezione dello Stato rispetto a esigenze essenziali “dalla culla alla tomba”. Era un messaggio forte, che ha segnato la fortuna della sinistra (e del capitalismo occidentale) nel secolo che si è concluso. Ma ormai le nostre società sono cresciute e al loro interno molti hanno iniziato ad avvertire un fastidio per i costi della protezione. Le stesse conquiste socialdemocratiche hanno creato quella che Galbraith ha chiamato la “cultura dell’appagamento”, la convinzione della maggioranza dei cittadini di poter fare a meno dello Stato in molti settori della loro vita. Questo non significa che incertezze e rischi siano spariti; forse sono addirittura aumentati nell’economia della flessibilità. Ma nuovi rischi e nuove incertezze richiedono nuovi strumenti di tutela, non necessariamente riconducibili a forme tradizionali di intervento pubblico.
Prendere atto del superamento della visione socialdemocratica dei compiti dello Stato, non significa trasferirsi armi e bagagli nel terreno del liberismo, ma cercare terreni e livelli diversi. Non dobbiamo essere intimiditi o impauriti dalla traversata del deserto richiesta da questa ricerca. Negli anni ‘50 e ‘60, di fronte alla politiche keynesiane della domanda e allo stato sociale universale, erano le forze conservatrici a essere sulla difensiva (e quando si trovavano al governo, si limitavano a gestire le conquiste socialdemocratiche). Oggi, il quadro è mutato e la lezione dei fatti pone difficili sfide alla sinistra. È indubbio che l’onere della prova spetti ormai ai socialisti e ai liberali interventisti: devono essere loro a dimostrare che- in determinate condizioni e utilizzando precisi strumenti d’intervento- lo Stato può aumentare il benessere sociale, integrando o correggendo il meccanismo di mercato. La prova opposta è già stata data: si è visto come l’intervento pubblico (anche se giustificabile ex ante in termini di equità o efficienza) possa creare effetti collaterali che finiscono per annullare l’iniziale vantaggio comparato dello Stato, sotto i colpi delle pressioni corporative, dei disincentivi economici, dell’inefficienza burocratica e dell’irresponsabilità sociale.
La teoria economica riconosce che in determinate situazioni il meccanismo concorrenziale non conduce all’allocazione ottimale delle risorse, a causa di “fallimenti del mercato” dovuti a esternalità, economie di scala o asimmetrie informative, oppure sulla base di motivazioni d’equità ritenute impellenti dalla società. Da un’analisi del genere, tuttavia, non discende la semplice implicazione normativa che lo Stato debba sostituirsi o correggere il mercato in tutti questi casi. Infatti, l’operatore pubblico potrebbe non essere in grado di superare i limiti informativi che rendono sottoottimale il mercato; oppure potrebbe essere afflitto da “fallimenti dello Stato” che ne annullano l’iniziale vantaggio comparato (come ci spiegano i recenti contributi della Public Choice). Esistono sia casi di “fallimenti democratici” (cioè di distorsioni create motu proprio dal processo politico e dall’attività di ricerca delle rendite delle categorie socio-economiche), sia casi di “fallimenti pubblici” (cioè di effetti collaterali prodotti da interventi comunque giustificabili per ragioni di equità o efficienza). La tesi liberista che, sulla base dell’esperienza dei fallimenti dello Stato, l’intervento pubblico sia sempre negativo per il benessere sociale, deve essere contrastata. Ma può essere contrastata efficacemente soltanto da proposte che superino il test riformista dell’onere della prova, da politiche che non si limitino a giustificare l’intervento pubblico sulla base dell’esistenza dei fallimenti del mercato, ma si sforzino di mostrare come i fallimenti dello Stato possano essere minimizzati. Altrimenti, il messaggio che è meglio lasciar fare agli animal spirits del settore privato sarà sempre più convincente. Come è accaduto nell’Italia del 2001.
Disegno Treu-Amato e art.18: il “tabù a scadenza” Passiamo dalle nuvole dell’impostazione teorica alla polvere di un esempio concreto: il mercato del lavoro. È giusto contrastare il disegno del governo che toglie diritti a chi li ha senza riconoscerne a chi non li ha, e che introduce una proliferazione immotivata degli strumenti contrattuali atipici, con l’effetto di esasperare gli effetti negativi della “flessibilità al margine”, in cui tutti i costi della flessibilità ricadono su una fascia di lavoratori meno attrezzati a competere sul mercato. Ma per opporsi efficacemente a questo disegno, dobbiamo offrirne uno alternativo, che unifichi anziché dividere i lavoratori e che giustifichi le ragioni di un nuovo protagonismo pubblico nel mercato del lavoro. Un progetto riformista come quello delineato dal disegno di legge Treu-Amato, incentrato su tre ingredienti che si sostengono a vicenda: (1) uno “Statuto dei lavori” che garantisca una rete minima di diritti per tutti; (2) un insieme di interventi che rafforzino le forme di tutela nel mercato (garantendo i diritti all’informazione e alla formazione mirata e permanente); (3) una riforma del sistema degli ammortizzatori sociali che abbracci anche i giovani dei nuovi lavori, attraverso un aumento delle risorse destinate alla copertura del rischio disoccupazione.
Certo, trovandosi all’opposizione dopo che si è stati da poco al governo, non è facile confrontarsi credibilmente con l’onere della prova. Possiamo provare a convincere i giovani con contratto atipico o in cerca d’occupazione che il proposito del centrodestra di rimuovere i diritti degli insiders senza preoccuparsi minimamente di loro- degli outsiders- non li aiuta affatto. E che servirebbe un progetto più ampio come quello Treu-Amato. Il rischio, però, è di sentirsi rispondere che, dopo cinque anni di governo del centrosinistra, se si recano in un Centro per l’Impiego per cercare quella tutela nel mercato di cui parliamo, non ricevono un servizio adeguato, a meno che non abbiano la fortuna di vivere in una delle isole felici del collocamento fotografate dal rapporto ISFOL.
Per superare il test riformista dell’onere della prova, il disegno Treu-Amato dovrà confrontarsi con quattro problemi: (1) l’individuazione di strumenti che rendano efficaci le forme di tutela nel mercato; (2) il reperimento delle risorse finanziare necessarie per la riforma degli ammortizzatori sociali; (3) il moral hazard, cioè i disincentivi al lavoro legati a un’estensione della tutela contro la disoccupazione; (4) il monitoraggio degli effetti dell’intero impianto riformatore, soprattutto rispetto al turn over tra contratti atipici e rapporti che mantengono una forte protezione nel posto di lavoro. Sul primo punto, è presto detto: è inutile proclamare i diritti all’informazione e alla formazione, se i lavoratori non sono in grado di toccarli con mano. C’è un problema di risorse e di strumenti burocratici utilizzati per far funzionare concretamente le tutele nel mercato, attraverso un sistema integrato di servizi per l’impiego, la formazione, il reinserimento e la mobilità. Sistema che passa anche per un ripensamento della combinazione tra pubblico e privato in questo campo. Non tutto può risolversi, infatti, nella semplice estensione dello spazio dell’operatore pubblico (si pensi al ruolo del collocamento privato, ai voucher formativi, e altro ancora).
Rispetto al secondo punto, si dovrà intervenire sulla finalizzazione dei contributi, ma non ci sono dubbi che si dovranno aumentare le risorse finanziarie per gli ammortizzatori sociali. Uno dei limiti principali della delega del governo sul lavoro risiede proprio nella frase “senza oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato”. Impostazione, d’altronde, avanzata anche dal centrosinistra quando si trovava al governo: l’art.45 della legge delega n.144/99 imponeva lo stesso- rigidissimo- vincolo di bilancio. Adesso che questo approccio viene superato dal disegno Treu-Amato, ci si dovrà misurare sul nodo del riequilibrio della spesa sociale, ovvero sul nodo della riduzione delle risorse assorbite dalla previdenza pubblica per aumentare le altre componenti del nostro sistema di welfare. Si dovranno reperire le risorse necessarie per riformare ammortizzatori sociali che oggi forniscono tutele esigue e ingiustificatamente difformi tra categorie di lavoratori.
Rispetto al terzo punto- i disincentivi al lavoro che possono discendere da forme di garanzia del reddito- si devono osservare con attenzione le esperienze straniere di welfare-to-work, che si sono già confrontate con questo problema. In questa ottica, l’integrazione tra ammortizzatori sociali, formazione e servizi all’impiego è uno degli strumenti chiave. Ma è intorno all’ultimo nodo- il turnover tra contratti atipici e tempo indeterminato- che si gioca la credibilità del progetto Treu-Amato, anche perché è lì che si inserisce una delle differenze più vistose rispetto all’approccio del centrodestra: l’intento di mantenere una diversa gradazione della protezione nel posto di lavoro a seconda delle forme contrattuali. Se si vuole mantenere una scala dei diritti, ci si deve porre il problema di quanti partono dall’ultimo gradino della scala. Alcuni di loro sceglieranno di restarvi per esigenze personali di flessibilità, oppure perché la loro posizione rende preferibile non pagare il costo implicito in termini di minore salario associato a una maggiore sicurezza. Altri, però, preferiranno salire la scala e dovranno essere messi nelle condizioni per farlo. Solo se le nuove tutele nel mercato e il sostegno del welfare-to-work si riveleranno realmente efficaci, si assisterà a un flusso continuo dallo stato di disoccupazione e dai rapporti temporanei verso quelli a tempo indeterminato. Solo se il turnover tra lavoratori permanenti da una parte e atipici, disoccupati e irregolari dall’altra sarà elevato, si potrà sostenere credibilmente che una qualche gradazione nella sicurezza del posto di lavoro è sostenibile in termini d’efficienza e d’equità. Un effettivo monitoraggio di questi effetti dovrebbe essere parte integrante del disegno Treu-Amato. In altre parole: se si vuole mantenere il tabù
dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori, lo si deve trasformare in un “tabù a scadenza”, condizionandolo agli effetti della proposta riformista sull’efficienza e sull’equità del mercato del lavoro italiano.
Quello del lavoro è un esempio importante, ma altri potrebbero essere affrontati, dalla globalizzazione (siamo sicuri che la Tobin Tax superi il test riformista dell’onere della prova?) allo sviluppo imprenditoriale del Mezzogiorno (come valutare gli strumenti della “nuova programmazione”?). In ogni caso, il messaggio è semplice: solo se acquisirà una cultura economica capace di elaborare politiche pubbliche che superino il test riformista dell’onere della prova, la sinistra potrà superare la sua crisi d’identità, dando gambe all’ambizione di rappresentare e governare l’Italia del 2006.
Il test riformista dell’onere della prova
Tommaso Nannicini
Democrazia/#riformismo