Sergio Rizzo, con un articolo sul Corsera, ha rilanciato la proposta di imporre un tetto al reddito esterno dei parlamentari, contenuta nel disegno di legge del senatore Pd Mauro Agostini. In Italia, i parlamentari non hanno vincoli sui guadagni da attività esterne. Avviene lo stesso un po’ ovunque a eccezione degli Stati Uniti, dove i redditi esterni da lavoro non possono eccedere il 15% dello stipendio di un “executive public officer”. Gli altri paesi si accontentano invece di rendere pubbliche le dichiarazioni dei parlamentari (in Italia avviene dal 1982) per un principio di trasparenza e di controllo da parte degli elettori. Ritenendo troppo blanda la semplice pubblicazione dei redditi (che tra l’altro, non essendo disponibili online come avviene in Gran Bretagna, non sono facilmente accessibili dai cittadini italiani, salvo i casi celebri ripresi dai giornali ogni anno, facendo quindi venir meno lo spirito della legge), Agostini ha proposto di introdurre il tetto statunitense anche in Italia (traducendolo nel 15% del “trattamento complessivo massimo annuo lordo riconosciuto ai magistrati con funzione di presidente di sezione della Corte di Cassazione”).
La proposta ha indubbi benefici. Il primo, il più ovvio, ha a che fare con un “conflitto di tempo”. Se lavori fuori, ti resta meno tempo per dedicarti all’attività parlamentare. Gli anglosassoni, poeticamente, chiamano il doppio lavoro “moonlighiting”, assumendo che, per riuscire a farlo, devi lavorare alla luce della luna. Ma un parlamentare ha un’alternativa al lavoro notturno: non lavorare affatto in parlamento (se gli altri incentivi politici e istituzionali che dovrebbero spingerlo a fare il suo dovere non funzionano adeguatamente). In uno studio recente (S.Gagliarducci, T.Nannicini, P.Naticchioni, Moonlighting Politicians, Journal of Public Economics, 2010), abbiamo mostrato come il reddito extraparlamentare aumenti notevolmente il tasso di assenteismo e riduca le proposte di legge. Tenendo conto di altri fattori (come l’istruzione, l’età, l’esperienza politica, il partito, la circoscrizione elettorale, l’essere in maggioranza o all’opposizione), le stime mostrano che 100mila euro di reddito extra-parlamentare corrispondono a circa 4,5 punti percentuali in più di assenze nelle votazioni elettroniche (+14% rispetto a un assenteismo medio del 33%) e a circa 0,64 proposte di legge in meno per legislatura (-8%). Un dato rilevante se si tiene conto che il reddito extra-parlamentare medio ammonta a circa 61mila euro (33% del reddito totale), che il 16% dei parlamentari guadagna fuori dal parlamento più di 100mila euro, il 6% più di 200mila, e l’1% più di un milione di euro.
Gli altri benefici attesi della proposta Agostini hanno a che fare con i possibili conflitti di interesse e le distorsioni alla concorrenza nel settore privato. Se buona parte del mio reddito arriva da fuori, è probabile che, anche se trovo il tempo di lavorare in parlamento, la mia attività legislativa e di controllo finisca per rispondere agli interessi di chi mi paga, più che a quelli di chi mi ha eletto. Qui il pensiero corre veloce alla nutrita pattuglia di avvocati del presidente del consiglio che siedono in parlamento, ma conflitti di interesse, grandi o piccoli, si annidano anche da altre parti. Il tema della distorsione alla concorrenza è senz’altro minore, ma non c’è dubbio che aggiungere “onorevole” sul biglietto da visita in molte professioni procuri vantaggi di accesso alla clientela rispetto ai propri concorrenti.
Detto questo, la proposta presenta anche costi, nascosti un po’ sotto il tappeto da Rizzo e Agostini. Costi che non sfuggivano ai legislatori degli Stati Uniti quando nel 1977, al termine di una bella e accesa discussione parlamentare, hanno deciso di introdurre un tetto ai redditi extra-parlamentari. Come spiegava allora il senatore democratico Edmund Muskie, la sua decisione di restare sulla scena pubblica, in maniera onorevole, per oltre 22 anni era stata resa possibile solo dall’opportunità di cumulare redditi esterni e non chiudere l’attività precedente. Se riteniamo che i redditi esterni, in molte professioni, siano un indicatore di capacità e competenza, perché alla lunga chi è più bravo riesce ad affermarsi, allora dobbiamo tenere presente che potremmo rinunciare proprio a persone meritevoli qualora decidessimo di porle di fronte all’aut-aut tra farsi eleggere in parlamento e abbandonare completamente la loro attività. È un argomento che non dovrebbe stupire i giornalisti. Non è un caso che il direttore di Repubblica guadagni più di un cronista locale, o che Rizzo e Stella guadagnino più di altri giornalisti del Corsera: sono più bravi. E in parlamento preferirei avere i primi rispetto ai secondi, anche al costo che saltino qualche seduta parlamentare per scrivere un pezzo.
Questo rimanda a un tema più generale: come selezionare politici migliori. Siamo inondati quasi quotidianamente da e-mail che strepitano contro gli stipendi troppo alti dei nostri parlamentari. Ma questo è un falso problema. Sempre gli anglosassoni ci insegnano che: “if you pay peanuts you get monkeys” (se paghi noccioline, attiri solo scimmie). In Italia, per esempio, quando lo stipendio del sindaco aumenta di quasi un terzo al di sopra della soglia di 5.000 abitanti, si candidano e vengono eletti politici più istruiti e la loro gestione delle finanze comunali risponde meglio a criteri di efficienza (S.Gagliarducci, T.Nannicini, Do Better Paid Politicians Perform Better?, Journal of the European Economic Association, 2011). Pagare di più i politici, quindi, può anche tramutarsi in un affare a volte. D’accordo, anch’io dubito fortemente che lo sia nel caso dei parlamentari italiani. Ma questo ha a che fare con la loro qualità (media) e con i meccanismi (chiusi) con cui sono scelti. È lì che si annida il vero problema.
Sull’attuale legge elettorale, il famigerato “Porcellum”, è già stato detto tutto il male possibile, anche da chi non l’ha né proposta né approvata, ma non si è fatto scrupoli a usarla per difendere le oligarchie di partito. Con partiti chiusi e autoreferenziali e un quadro politico polarizzato, in cui molti elettori considerano i partiti alla stregua di squadre di calcio, il proporzionale con liste bloccate fornisce incentivi perversi nella selezione della classe politica. Una nuova legge elettoraleattenta ai suoi effetti sulla selezione politica è quindi una priorità. Di recente, insieme a Vincenzo Galasso, mi è capitato diproporre un ritorno al maggioritario con un preventivo disegno dei collegi uninominali capace di massimizzare la contestabilità di ogni singolo collegio (perché proprio l’evidenza italiana mostra che i parlamentari migliori ai tempi del “Mattarellum” erano eletti nei collegi con un più alto tasso di competizione politica; V.Galasso, T.Nannicini, Competing on Good Politicians, American Political Science Review, 2011). È solo una proposta fra tante, ma l’argomento è cruciale per lo stato della nostra democrazia.
Altri fronti su cui occorre cambiare registro non mancano. Dobbiamo rivitalizzare e aprire i partiti politici come sede di discussione e selezione. Dobbiamo rendere più credibile il controllo dei mezzi di informazione (tradizionali e non) sugli eletti. E dobbiamo aumentare la consapevolezza degli elettori sull’importanza di guardare alle qualità personali dei candidati. Perché è vero che a volte i cittadini hanno poco potere di scelta, ma non sempre è così. Ricordiamocelo la prossima volta che dovremo decidere se votare l’assessore impreparato che ci ha promesso un favore o un candidato sconosciuto ma capace.
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