Senatore Tommaso Nannicini, la vicenda del sindacalista investito e ucciso durante una manifestazione ha dietro la giungla della logistica: lavori usuranti, salari bassissimi, tutele quasi inesistenti. Non è il caso di ripartire da qui quando si parla di ricette per il mondo del lavoro?
Mi faccia fare una premessa. Mi stringo al cordoglio per la tragica morte del sindacalista: va fatta immediata chiarezza su un fatto che è gravissimo. In questo Paese si muore di lavoro ogni otto ore e ora anche manifestando per i diritti del lavoro. È inaccettabile.
Veniamo a quello che si può fare per evitare che una tragedia simile possa ripetersi.
Dobbiamo porre l’accento sul tema della sicurezza e della dignità del lavoro in tutte le nostre filiere produttive. Non ha senso parlare di Recovery, digitale e transizione ecologica se ci sono pezzi di filiere che pensano di competere riducendo i costi e con salari da fame.
Come si costruisce in concreto questa idea di qualità e di dignità del lavoro?
Innanzitutto superando un tic che è anche della sinistra e cioè anestetizzare i conflitti, negandoli e nascondendoli sotto al tappeto. La politica non può negare questi conflitti, deve prendere una posizione.
Svisceriamo questa posizione. Il tema dei licenziamenti sta fagocitando il dibattito sul lavoro, di salari bassi invece non parla quasi nessuno. La questione salariale non è più centrale per il Pd?
Condivido il fatto che si sta parlando troppo poco dei salari bassi. Proprio per questo ribadisco che anche il Recovery deve uscire dall’ottica che bastano gli investimenti. Tutte le transizioni, anche quelle positive, hanno un costo: dobbiamo accompagnare i costi sociali del cambiamento, altrimenti i soggetti che lo vivono si vendicano e, giustamente, lo bloccano. Non possiamo lasciare da soli i soggetti più fragili e più deboli.
Con quali strumenti si può gestire questa transizione?
C’è bisogno di un welfare più universale: i sussidi servono, fanno aumentare il salario di riserva, cioè l’offerta minima di lavoro che sei disposto ad accettare, e ti sottraggono al ricatto dello sfruttamento. Nessuno rischia, neanche gli acrobati, senza una rete di salvataggio. Se perdi il lavoro, lo Stato non deve aspettare che diventi povero per darti il reddito di cittadinanza, deve aiutarti prima.
Cosa bisogna fare allora?
Bisogna introdurre un reddito di formazione, una super Naspi (indennità di disoccupazione, ndr) che dia a un disoccupato, a una partita Iva o a un giovane che cerca lavoro per la prima volta una forte garanzia del reddito. E più forza per rifiutare un tirocinio sottopagato o un lavoro con un salario bassissimo. Il reddito di formazione rafforzerebbe questa possibilità e allo stesso tempo formerebbe chi sta cercando un lavoro.
Non basta la Naspi?
No. Innanzitutto il reddito di formazione deve prevedere un accesso più facile per gli under 35: oggi per avere l’importo più alto devi avere quattro anni di contribuzione continuativa e questo è di fatto impossibile per un giovane. Poi per gli over 50 non deve avere un décalage, cioè un importo che va a diminuire. Ma al di là dei singoli aspetti va rovesciata la logica attuale: non un sussidio con delle condizionalità, ma un bilancio delle competenze che poi ti inserisce in un percorso personalizzato di orientamento, formazione e accompagnamento al lavoro. Se accetti quel percorso, accedi al reddito di formazione”.
Perché gli strumenti attuali non sono sufficienti?
La cassa integrazione serve per chi ha un lavoro e a gestire quindi un momento di crisi aziendale, il reddito di cittadinanza è utile per i poveri. Ma nel mezzo ci sono tutti gli altri, di cui la politica si occupa troppo poco. Eppure la pandemia ci ha spiegato come questo sistema non è adeguato.
In che senso?
Nonostante il blocco dei licenziamenti abbiamo perso un milione di occupati: giovani, donne, partite Iva, contratti a tempo. Un milione di persone che nessuno chiama licenziati, ma che però sono persone in carne e ossa senza un lavoro. Il rovesciamento della logica è questo: bisogna costruire politiche orientate alla formazione e ammortizzatori sociali per chi un lavoro non ce l’ha.
Al reddito di cittadinanza e alla cassa integrazione ci pensa lo Stato attraverso l’Inps. Invece di istituire un reddito di formazione non basterebbe far funzionare l’Anpal per completare il ciclo che porta dalla ricerca del lavoro al lavoro stesso?
Quando parlo di reddito di formazione dico che sarebbe importante avere un’unica agenzia che ti dà il sussidio e i servizi. Già questo è un nodo che spiega perché le politiche attive del lavoro non hanno mai funzionato in Italia.
Domanda e offerta non si incrociano, molte imprese lamentano di non riuscire a trovare profili adeguati. Perché siamo arrivati a questo punto?
Abbiamo fatto molti errori. Innanzitutto abbiamo vissuto le politiche attive come sostitutive di quelle passive: o ti do un sussidio o ti do i servizi. Invece vanno visti insieme. Poi c’è il problema del rapporto tra lo Stato e le Regioni: la formazione permanente cambia da una Regione all’altra. Se non si vuole cambiare il titolo V quantomeno si accentrino le risorse intorno a una regia unica nazionale. In Germania, che è uno stato federale, l′80% dei fondi per l’occupazione e per la formazione sono gestiti a livello nazionale, solo il 20% dai singoli Lander.
I sussidi sono finanziati adeguatamente, con la pandemia ancora di più perché è aumentata la richiesta. Non servirebbero più risorse anche per le politiche attive?
Assolutamente sì. Le riforme a costo zero esistono solo negli editoriali di noi economisti. Bisogna assumere personale e formarlo. Più in generale per le politiche attive dobbiamo utilizzare risorse permanenti, non solo quelle europee. Questo implica una revisione e un ripensamento della spesa pubblica.
Torniamo alla questione iniziale, quella dei salari. Come si alza un livello che è bassissimo?
È necessario investire sulla sicurezza nel lavoro. Il ministro Orlando ha individuato una personalità di grande valore per l’Ispettorato nazionale, il magistrato Bruno Giordano, aspettiamo che il Csm dia il via libera. Non c’è un minuto da perdere. Le ispezioni e i controlli contro gli abusi e i contratti pirata vanno aumentati. Ma serve anche un rafforzamento della buona contrattazione collettiva: da lì arrivano una giusta retribuzione e altre tutele contrattuali importanti.
La strada da seguire è potenziare i contratti nazionali o spostare l’azione su quelli di secondo livello? I sindacati sono contrari a questa seconda opzione.
La contrattazione di secondo livello è importante per avere scambi virtuosi tra un aumento dei salari e la produttività. È un giocare all’attacco, tra l’altro difficile nel contesto delle piccole e medie imprese. Ma non basta per gli standard minimi: l’agricoltura, i servizi e altri settori rischiano di non essere tutelati senza il contratto collettivo nazionale che dà garanzie minime evitando forme di dumping contrattuale o nelle forme di lavoro.
I sostenitori della contrattazione di secondo livello vedono di buon occhio anche il salario minimo. Per lei è una misura che può tutelare chi oggi guadagna anche meno di 3 euro per un’ora di lavoro?
Sul tema sono abbastanza laico: c’è in molti Paesi, si potrebbe fare anche in Italia, ma è complicato fissare una quota perché se il valore è troppo alto si rischia di creare una fuga dal lavoro e così di incentivare il lavoro nero. Se fosse troppo basso ci sarebbe una fuga dalla contrattazione collettiva e il lavoratore rischierebbe di prendere meno di quello che è garantito dal contratto nazionale come livello minimo. È un esercizio rischioso.
Quindi meglio di no?
Prima di far giocare la politica con i numeri del salario minimo, magari a Porta a Porta, sarebbe opportuno ripensare il nostro sistema di relazioni industriali. Avevo un disegno di legge al Senato, a nome di tutto il Pd, che prevedeva di creare una sede istituzionale con le parti sociali per riscrivere le regole della rappresentatività di sindacati e associazioni datoriali. Sulla base delle nuove regole, i contratti più rappresentativi dovrebbero valere erga omnes per tutti i lavoratori. Se le parti sociali sono in grado di arrivare a una sintesi bene, altrimenti se c’è uno stallo il ministro del Lavoro può creare una commissione di esperti e parti sociali per fissare un salario minimo legale. Questo è lo schema di gioco che seguirei per conciliare autonomia delle parti sociali, buona contrattazione collettiva e innalzamento dei salari minimi. Ma con responsabilità chiare per uscire dallo stallo.
Nel 2015, con l’allora governo Renzi, si puntò sulla decontribuzione per alzare i salari. Quella strada, con eccezione del lavoro virtuoso del ministro Provenzano, è stata di fatto annacquata. Lei crede che basti abbattere il costo del lavoro per spingere le aziende ad aumentare i salari?
La decontribuzione può servire, ma non basta. Servono politiche industriali che facciano fare un salto di qualità al nostro tessuto produttivo. Sto parlando di una scelta di campo che dobbiamo fare ora, subito. La qualità non è solo negli investimenti e nei profitti, ma anche nei salari. Se non facciamo questa scelta di campo ci troveremo con qualche grande impresa che si accaparra qualche fondo e con piccole filiere che si alimenteranno sfruttando i lavoratori. Non può essere questa l’Italia del post pandemia e del post Pnrr.