“Il salario minimo è una misura di giustizia sociale che era già nel programma del Pd nel 2018. Assieme ad altre proposte chiave per sostenere le famiglie a basso reddito: l’assegno unico, la pensione di garanzia per i giovani, il sostegno alla non autosufficienza”. A dirlo non è un pasdaran della sinistra radicale, bensì il più riformista fra i senatori dem: Tommaso Nannicini, professore ordinario di Economia Politica, già sottosegretario alla Presidenza del consiglio nel governo Renzi. A riprova del fatto che, nel campo progressista, la battaglia è antica e non prevede distinguo: tutti d’accordo su una misura che può davvero spingere verso l’alto le retribuzioni di tutti i lavoratori.
Ma se il salario minimo è da anni una priorità del Pd, oltre che del M5S, perché non siete riusciti ad approvarlo, visto che per un anno e mezzo avete pure governato insieme?
“Un po’ per la pandemia che ha rallentato le iniziative legislative non legate all’emergenza. Un po’ per l’assenza di un accordo su come farlo. C’è per esempio, depositato in Parlamento, un disegno di legge a mia prima firma che è diverso da quello dei Cinquestelle”.
Loro vorrebbero una paga oraria minima fissata per legge, ma Pd e sindacati sono contrari. Perché?
“Se metti una cifra troppo bassa rischi la fuga dalla contrattazione collettiva, se è troppo alta la fuga nel sommerso. In tutti i Paesi, il salario minimo non lo decide un politico in un talk show, ma una commissione di esperti e parti sociali”.
Potrebbe essere un buon compromesso la “via italiana” al salario minimo proposta dal ministro Andrea Orlando?
“Estendere erga omnes il trattamento economico complessivo dei contratti collettivi più rappresentativi mi pare la soluzione più ragionevole. Ma prima c’è bisogno di una legge sulla rappresentanza che sconfigga i contratti pirata. Mentre la leva fiscale potrebbe essere utilizzata per detassare gli aumenti contrattuali anche in maniera selettiva, cioè sui salari bassi o laddove gli utili delle imprese crescono”.
C’è solo un problema: Confindustria. Per il presidente Bonomi le imprese sono in sofferenza e non possono permettersi né di alzare gli stipendi, né di introdurre il salario minimo.
“Una parte del mondo produttivo agita il fantasma degli anni ’70 e della spirale prezzi-salari, ma il vero fantasma da scacciare è quello degli anni ’90: una stagnazione delle retribuzioni che arriverebbe dopo anni di crisi economica, anziché di boom, e che sarebbe profondamente ingiusta a fronte di un’inflazione che cresce per fattori esterni come la guerra e di politiche economiche espansive che distribuiscono miliardi sul sistema delle imprese, da ultimo attraverso il Pnrr”.
Ma basta l’inflazione, che è un elemento congiunturale, a giustificare un aumento dei salari, che sarebbe invece strutturale?
“Guardi che l’aumento delle retribuzioni serve anche a sostenere la domanda interna. Sarebbe una boccata d’ossigeno per le stesse imprese. senza dimenticare che esiste pure un discorso di equità sociale: veniamo da una lunga fase di recessione durante il quale le diseguaglianze sono esplose e ora rischiano di aggravarsi perché l’inflazione è una tassa ingiusta su lavoratori e pensionati, soprattutto quelli con redditi bassi, a maggior ragione oggi che riguarda prodotti energetici e alimentari”.
Ha capito perché gli industriali si sono messi di traverso?
“Il nostro quadro di relazioni industriali è diventato instabile.”
Cioè?
“La pandemia, l’inflazione, l’emergere di nuove leadership in campo sindacale e imprenditoriale hanno reso il sistema meno solido. Un problema serio, tanto più in un periodo di crisi. perciò penso sia urgente che il governo promuova un patto con le parti sociali sul modello del protocollo Ciampi per coordinare politica economica e contrattazione collettiva. Senza, il Paese si ferma”.
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