«A questo punto credo serva un congresso», spiega Tommaso Nannicini, economista e senatore del Pd che aggiunge: «Si è gestita questa fase con qualche timidezza di troppo».
In un tweet lei parla di fallimento della politica e chiede di rilanciare l’identità del Pd.
«Il percorso, giustissimo, impresso dal presidente Mattarella nasce perché la politica non è riuscita a trovare il bandolo della matassa. Sono impossibili le urne e ora serve la responsabilità di tutti. Partiti anzitutto ma anche parti sociali, altrimenti non si va avanti. E apprezzo in questo senso sia l’apertura a Draghi da parte dei sindacati, sia che il premier incaricato consulterà anche loro».
E per rilanciare l’identità del Pd, cosa intende?
«Inutile girarci attorno: abbiamo gestito questa fase con qualche timidezza di troppo. Troppo appiattiti su Conte. Senza spiegare come si intendeva rilanciare l’azione di governo. È vero che si è chiesto una svolta, ma solo a parole. Il dibattito Conte sì o Conte no ci ha fatto smarrire la politica».
Penalizzando, in questa crisi, il suo partito più degli altri non trova?
«Abbiamo sacrificato tutto sull’altare di un’alleanza strategica con i grillini senza capire che rappresenterebbe la fine del Pd. E senza che se ne sia mai discusso davvero. Adesso dobbiamo essere responsabili per permettere al governo Draghi di partire e dare forza al Paese, ma è necessario che il Pd ci metta le sue idee: giustizia sociale e investimenti su sanità, scuola e ricerca, anzitutto. E per farlo serve una discussione franca su cosa deve essere il nostro partito. È un tema da porci subito perché i governi tecnici sono parentesi brevi, ma poi si tornerà a votare e non si può contrastare la destra di Meloni e Salvini con una semplice ammucchiata. Serve un Pd che fa il Pd e parla al Paese».
Rimane un problema di numeri.
«Abbiamo detto che vogliamo il proporzionale e quindi le ammucchiate non servono: occorre coltivare la propria identità e solo dopo ci si allea con qualcuno. Guardi io credo che abbiamo smarrito un po’ troppo la nostra identità nell’ultimo anno con l’abbraccio con i grillini».
Se evoca una discussione, vuol dire che evoca un congresso.
«L’ultimo si è tenuto un’era geologica fa: eravamo all’opposizione di Conte, e tutti dicevamo mai con lui prima di andarci, e poi c’è stata la scissione di Renzi. Io credo sia impensabile che una forza politica attraversi tutti questi cambiamenti di sistema rimodulando la sua identità solo attraverso interviste sui giornali da parte dei suoi dirigenti. Credo lo si debba fare coinvolgendo iscritti ed elettori. Per discutere della linea politica e di chi la porta avanti».
Sembra di capire che vuole mettere in discussione anche la leadership di Zingaretti.
«Non personalizzo. Dico solo che è stato gestito tutto, sbagliando, con un patto di sindacato tra gruppi dirigenti e ora è arrivato il momento di chiedere ai nostri militanti che cosa deve essere il Pd. Mi sembra qualcosa di buon senso».
Lei è sempre stato critico verso l’alleanza con i grillini.
«Io sono contro le alleanze come fine in sé: prima era contro Berlusconi, poi è stato il turno di Salvini. E questo non basta. Per carità, le convergenze con altre forze, a partire dai 5 Stelle o quello che diventeranno, ci possono essere, ma devono essere punti di incontro tra identità diverse. Per dirla con Gaber, io non temo il grillino fuori di me ma il grillino che è in me: quelle idee populiste che ogni tanto serpeggiano anche nel Pd. Temo la sudditanza culturale».
Ma adesso cosa deve fare il Pd su Draghi? Orlando ha detto che deciderete sulla base delle scelte degli altri partiti.
«Io mi auguro che una volta tanto avvenga il contrario, che gli altri partiti decidano sulle nostre idee e che i 5 Stelle facciano una scelta per il bene del Paese, come li ha invitati a fare Dario Franceschini».