Unità

Invasione cinese, né prediche né dazi

Tommaso Nannicini
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La recente visita toscana del commissario europeo Mandelson ha riportato in cima all’agenda politica le ansie di imprenditori e lavoratori per il boom dell’export made in China. Martini ha spiegato che la Toscana non chiede dazi, ma solo misure di salvaguardia per dare ossigeno alle imprese più colpite dalla liberalizzazione del settore tessile (misure che ci sono concesse fino al 2008). Questa posizione è condivisibile, ma necessita di due precisazioni. Prima precisazione. L’Agreement on Textile and Clothing (che ha smantellato completamente, a partire dal 1 gennaio 2005, il precedente sistema di quote bilaterali particolarmente sfavorevole ai paesi poveri) è stato siglato nel 1994. In dieci anni, molte imprese del settore (non tutte, per fortuna) hanno mancato l’appuntamento con l’internazionalizzazione e la specializzazione sulla fascia alta della filiera. Chi ci garantisce che ce la faranno nel giro di altri tre anni? Seconda precisazione. Molte delle misure invocate – come le quote massime – per la Toscana comportano perdite di benessere addirittura maggiori rispetto ai dazi: poiché la Cina è un paese grande, che influenza i prezzi dei mercati mondiali, una contrazione della sua offerta finisce per peggiorare la nostra ragione di scambio (e questa perdita si aggiunge a quelle in termini d’efficienza e a danno dei consumatori, che devono pagare prezzi più alti). Che fare, dunque? Rassegnarsi a essere travolti dalla marea cinese? Organizzare convegni in cui si predica la via alta alla competitività? Niente affatto. Se davvero vogliamo rimettere in moto l’Italia, dobbiamo cominciare a far muovere gli italiani: abbattendo i costi di mobilità che impediscono a giovani, imprese e lavoratori di spostarsi laddove esistono le migliori opportunità di crescita e auto-realizzazione. All’Italia è richiesto uno sforzo di aggiustamento strutturale non dissimile da quello che nel passato l’ha trasformata da paese prevalentemente agricolo in potenza industriale. Anche la nostra regione sa bene che cosa significhi. Il Valdarno aretino – per fare solo un esempio fra tanti – era un tempo famoso per i suoi cappellifici. Poi, gli italiani hanno smesso di portare cappelli. E adesso i giovani in cerca di lavoro si rivolgono agli ipermercati o alle grandi firme della moda. Certo, il cambiamento è difficile e costoso, soprattutto per chi vede scomparire il “suo” lavoro dall’oggi al domani. Ma non esistono alternative credibili. Tutti gli aggiustamenti strutturali impongono costi legati agli spostamenti di imprese e individui: in Italia, questi costi sono di solito enormi e finiscono per frenare qualsiasi cambiamento. Non ci sono ammortizzatori e servizi che aiutino la mobilità dei lavoratori. Non ci sono mercati dei capitali e sistemi di trasferimento tecnologico che aiutino la mobilità imprenditoriale. Non c’è una cultura burocratica che aiuti la mobilità delle persone e delle attività. In tema di globalizzazione, dobbiamo sfuggire allo scontro tra due posizioni altrettanto inconcludenti: la richiesta di maggiori protezioni per le produzioni nazionali, e le “prediche” sulla via alta alla competitività. Ciò che serve è un programma di governo incentrato sulla mobilità. Si tratta di scelte che ricadono in gran parte sul governo nazionale, ma anche dalla Toscana possiamo fare molto. Altro che magliette e filati di lino. Chi si ferma è perduto.