Professor Nannicini, Renzi nelle ore più difficili dello scontro sull’inchiesta Consip, ha detto che occorre costruire l’Italia dei prossimi mille giorni. Quale idea di Paese avete in mente?
«Un paese che non si rassegna alla palude, che vuole realizzare anche le riforme che nei primi mille giorni di governo non siamo riusciti a fare. Dopo il primo passo che non è bastato, serve il secondo. Di questo parleremo al Lingotto».
Per combattere il disagio sociale innescato dalla perdita di lavoro prodotta dalle nuove tecnologie, Renzi ha lanciato il “lavoro di cittadinanza”. Non è un modo per scimmiottare i Cinquestelle?
«Scimmiottare? La nostra è una sfida culturale. Dopo decenni in cui le politiche del lavoro avevano finanziato soprattutto la disoccupazione, con il Jobs Act abbiamo cambiato paradigma finanziando l’occupazione. Ebbene, di fronte a proposte come quella dei grillini volte a ottenere l’inclusione sociale attraverso strumenti meramente assistenzialistici, noi con il lavoro puntiamo a finanziare ulteriormente l’occupazione. E vogliamo farlo mettendo al centro la persona piuttosto che l’impresa. Ad esempio, con una “dote formativa individuale portabile” che segua il lavoratore per l’intero arco della vita lavorativa e gli garantisca protezione: le sfide del mercato del lavoro e delle nuove tecnologie rendono infatti sempre più mobili i percorsi lavorativi. Ed è rispetto alle ansie create da questa mobilità che dobbiamo proteggere i lavoratori».
Lei ha parlato di “dote di decontribuzione individuale”.
«Esatto. Passando sempre dall’impresa alla persona, potremmo dare a ogni giovane lavoratore una “dote” decontributiva. Tipo: per i primi tre anni di lavoro a tempo indeterminato, fino ai 35 anni, i contributi sono pagati dallo Stato. Questo dà un aiuto dal lato del costo del lavoro, incentivando l’assunzione. E in più accelera le stabilizzazioni: se dopo un certo lasso di tempo, l’azienda non ha ancora assunto il giovane a tempo indeterminato, questi potrà muoversi e attivare la sua dote di decontribuzione presso un’altra azienda».
Finisce qui il “lavoro di cittadinanza” o c’è dell’altro?
«Il lavoro di cittadinanza non è una singola misura, è un insieme di politiche del lavoro. Significa mettere in campo tutti gli strumenti possibili, dalla formazione alla riduzione del costo del lavoro, alle politiche attive e di inclusione come il reddito di inclusione che è legato alla delega-povertà del governo Renzi. Tutti strumenti che sono dentro allo stesso disegno: dare le competenze, rafforzare i lavoratori sul mercato, aiutare a reinserirsi chi resta indietro».
Non si tratta insomma di un piano per l’assunzione in massa dei disoccupati, una sorta di lavoratori socialmente utili su larga scala?
«Assolutamente no. È un piano multiforme fatto di cinque ingredienti. Il primo: metter al centro la formazione per tutto l’arco di vita del lavoratore anche – appunto – con una dote di formazione individuale. Il secondo: ridurre, come dicevo, attraverso la dote decontributiva di tre anni il costo d’ingresso dei giovani nel lavoro a tempo indeterminato. Il terzo: reinvestire con più forza sulle politiche attive che sono il vero tassello mancante del Jobs Act. Il quarto: rafforzare il reddito di inclusione varato dal governo Renzi che ancora non copre tutte le persone sotto la soglia di povertà assoluta. E aumentare le risorse per creare servizi che garantiscano una reale rete di attivazione sociale – non solo lavorativa – per i più poveri. Il quinto ingrediente: in alcuni settori strategici individuare lavori che servono dal lato della pubblica amministrazione o del terzo settore, estendendo e allargando l’esempio positivo del servizio civile, procedendo sì ad assunzioni dirette, ma non per accendere o spegnere la luce in biblioteca, bensì per attività legate a un progetto formativo individuale».
Insomma, combattere il disagio sociale per fermare i partiti populisti?
«Non solo. È la mission della sinistra combattere il disagio sociale. Nenni diceva che il compito del socialismo è portare avanti chi è nato indietro».
Renzi è tornato anche a promettere tagli all’Irpef. Cosa avete in mente?
«L’obiettivo è quello di ridurre la pressione fiscale sui ceti medio-bassi. E magari sulle nuove generazioni».
Come?
«Per esempio introducendo una doppia progressività, legata ai redditi ma anche all’età: più sei giovane, meno tasse paghi. Questo anche per rimuovere alcune storture nel rapporto tra generazioni che ancora ci portiamo dietro e per favorire l’occupazione giovanile».
Dove troverete i soldi per tutte queste misure?
«C’è ancora molto da fare per far emergere base imponibile, per esempio sull’Iva. E la riforma della pubblica amministrazione dovrà portare a risparmi graduali ma tangibili. C’è poi il tema della tassazione dell’economia digitale e dei profitti legati all’innovazione tecnologica. Un tema da affrontare a livello europeo».