Di “nuovi lavori, nuove tutele” parliamo da anni. Nei nostri convegni. Nei nostri editoriali. In miriadi di dichiarazioni politiche. La riforma Fornero ha cercato di passare dalle parole ai fatti, ma una serie di compromessi e di veti più o meno sotterranei ha finito per complicarne l’impianto e per depotenziarne gli effetti. Con i decreti che attueranno la legge delega Poletti sul mercato del lavoro, il cosiddetto Jobs Act, il governo Renzici riprova, avendo dalla sua un forte capitale politico e la volontà di mettere mano a una riforma di sistema, che non ricada negli errori del passato.
Due obiezioni ricorrono spesso in merito all’impianto del Jobs Act. Prima: con la riforma delle regole, a partire dal famigerato art.18, non si crea lavoro; serve altro. Seconda: per abbattere il muro che separa chi ha tante tutele e chi nessuna, non dobbiamo uniformarle verso il basso ma verso l’alto, senza rinunciare a storiche conquiste dei lavoratori, come il reintegro per licenziamento ingiustificato.
La prima obiezione coglie nel segno, ma pecca di rilevanza. È vero: con l’ingegneria dei contratti e dei rapporti di lavoro non si crea occupazione. Ciò non toglie, però, che sia utile superare i bizantinismi e le iniquità delle nostre regole e delle nostre politiche del lavoro. Nei prossimi anni, la nostra economia dovrà attraversare un profondo processo di trasformazione: lavoro e capitale dovranno spostarsi da settori poco produttivi ad altri più produttivi. Le nuove regole del mercato del lavoro dovranno aiutare questo sforzo di aggiustamento, senza farne pagare il conto ai soli lavoratori più deboli.
Le riforme “al margine” che si sono susseguite a partire dagli anni ’90 hanno scaricato i costi della flessibilità solo su alcuni lavoratori, soprattutto quelli a basse qualifiche e i giovani in generale. Adesso, serve un sistema di tutele per un mercato che, piaccia o no, ha già assimilato forti dosi di flessibilità. Un sistema universale che non lasci indietro nessuno. È per questo motivo che la seconda obiezione di cui sopra è mal posta. Non si tratta di rinunciare alle conquiste del secolo scorso, ma di conquistare nuove forme di protezione per i lavoratori di oggi. Ogni tempo ha le sue battaglie.
C’è una strana alleanza tra il conservatorismo di chi difende le conquiste del passato come le uniche immaginabili e chi pensa che in fondo il mercato possa risolvere tutto da solo, trovando margini di flessibilità tra le pieghe delle regole esistenti. Entrambi gli approcci credono che la politica non possa costruire niente di nuovo (e di buono). Entrambi, per fortuna, si sbagliano.
Gli ingredienti con cui il Jobs Act si prepara ad affrontare queste sfide sono noti.
Primo. Semplificare le tipologie di contratti flessibili, restringendo gli spazi di precarietà e di subordinazione mascherata, ma salvaguardando allo stesso tempo le vere forme di lavoro autonomo dettate da esigenze di flessibilità dei lavoratori e delle imprese.
Secondo. Rafforzare la protezione dei lavoratori sul mercato, aumentando la generosità dei sussidi di disoccupazione, integrando le politiche passive con quelle attive, e aumentando l’efficacia dei servizi per l’impiego. La sfida è quella di creare una nuova (e più efficiente) rete di politiche attive, incentrata sul ruolo di controllo, coordinamento e valutazione di un’agenzia nazionale, ma valorizzando allo stesso tempo il ruolo di soggetti privati, anche no profit.
Terzo. Creare un nuovo contratto a tempo indeterminato “a tutele crescenti”, che possa presto diventare il rapporto standard in un mercato che coniughi dinamismo e protezione dei lavoratori sul mercato. Un contratto che riduca l’incertezza giudiziaria in tema di licenziamenti e faccia in modo che le imprese che hanno bisogno di aggiustare la propria forza lavoropaghino un indennizzo monetario certo al lavoratore, crescente con l’anzianità di servizio spesa in azienda. Ovviamente, anche per il nuovo contratto, resterà il reintegro per i licenziamenti discriminatori o per i disciplinari ingiustificati qualora si riferiscano a fattispecie molto gravi. Si va quindi verso una monetizzazione dei diritti? Forse, sarebbe il caso di girare la domanda ai disoccupati o ai collaboratori che non riescono a trovare una seria prospettiva di stabilizzazione, o ai tanti licenziati che oggi non possono contare su nessun sostegno monetario, né da parte dell’impresa che licenzia né da parte dello Stato.
Quarto (e non ultimo). Arrivare a un codice semplificato del lavoro, facile da capire per imprese, lavoratori e investitori internazionali.
Con questi quattro ingredienti si può essere più o meno d’accordo. Ma è del loro merito, e dei dettagli legati alla loro realizzazione, che occorrerebbe discutere. Senza guerre di religione, caricature o demonizzazioni, che servono soltanto a chi vuole dissipare l’ennesima occasione per rendere il nostro mercato del lavoro più equo ed efficiente.
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