Intervista all’ex senatore del Pd: “Un consiglio a Schlein? Non scambiare il sindacato per il mondo del lavoro e la Cgil per il sindacato”
“Rischiamo di tenere occupati i cittadini su un Sì o un No al Jobs Act sul niente, è una perdita di tempo. Non è un referendum ma un congresso a sinistra sul nulla”. Tommaso Nannicini, ex senatore del Pd, toscano senza peli sulla lingua, difende a spada tratta la “sua” riforma: il Jobs Act, padre di tutti i contenziosi sul lavoro che scrisse quand’era sottosegretario del governo Renzi.
Nannicini, se l’aspettava che il Jobs Act, la riforma del lavoro, passasse dagli altari alla polvere, messo in discussione e anche sottoposto al referendum?
“Sono i cicli della politica. I simboli cambiano. Il Jobs Act è stata una riforma complessa, ha rappresentato un cambiamento di passo. Ma è diventata una “riforma Gobaciov”, diciamo così: amata all’estero ma assai meno in patria. La narrazione era che avrebbe attirato investitori internazionali e fatta contenta la Merkel perché ci desse più margini di flessibilità di bilancio”.
Si è pentito di essere l’autore questa riforma?
“In quella riforma con 8 decreti legislativi c’erano tante cose che rivendico, dalla Naspi alle politiche attive. Se i rider a Torino hanno avuto alcune tutele del lavoro subordinato è per una norma del Jobs Act che combatte le false partite Iva, tanto per fare un esempio. Aggiungo che i governi successivi all’esecutivo Renzi in cui abbiamo varato il Jobs Act, non hanno mai cambiato quell’impianto, casomai vi hanno messo risorse aggiuntive”.
E ora però siamo al referendum abrogativo.
“È un referendum sul nulla. Sono 4 quesiti, 3 dei quali non sono sul Jobs Act e uno è su un decreto del Jobs Act già stravolto dalla Corte costituzionale. Quindi dire che in primavera ci sarà un referendum sul Jobs Act è un po’ una fake news. In realtà se ne legittima l’impianto”.
Quando lei lo studiò e consegnò il dossier a Matteo Renzi, quale era l’obiettivo?
“Nessuno se lo chiede più. Ma il modello non era una flessibilizzazione liberista del mercato del lavoro, bensì il modello scandinavo, cioè rafforzare gli ammortizzatori sociali e investire sulle politiche attive del lavoro”.
Ma il Jobs Act è diventato simbolo di tutti mali del lavoro moderno in Italia a cominciare dalla precarizzazione, perciò va abolito?
“Con tutti i problemi che ci sono nel mercato del lavoro, rischiamo di tenere occupata la sinistra su un Sì o un No sul niente, è una perdita di tempo. Ripeto: è un congresso della sinistra sul nulla. A pensare male si fa peccato, ma ci si azzecca e non vorrei che per qualcuno la scelta referendaria sia un modo per certificare che la linea politica sul lavoro la decide la Cgil, mentre l’Anm decide sulla giustizia e il centrosinistra ne deve solo prendere atto. Altro segnale preoccupante è che in Parlamento Pd, 5Stelle e Avs hanno votato contro la proposta di legge lanciata dalla Cisl per la partecipazione dei lavoratori in azienda: altro segnale negativo”.
Lei è sempre iscritto al Pd?
“Sì, ma non ho incarichi, studio e guardo con interesse quello che si muove per rafforzare il tasso di riformismo del centrosinistra”.
Un consiglio a Schlein su questi referendum?
“Parlare di presente e soprattutto di futuro: dai bassi salari ai giovani che se ne vanno. E non scambiare il sindacato per il mondo del lavoro, e la Cgil per il sindacato”.