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La calda estate della Spagna

Tommaso Nannicini
Democrazia/#spagna

Negli ultimi giorni, la lettura dei giornali spagnoli offriva tre dati, collegati tra loro, che fanno prefigurare un’estate più calda del solito.

Primo: secondo un membro di alto rango del governo Rajoy, il paese ha una liquidità che consente al massimo tre mesi di sopravvivenza (fonte: “La Vanguardia”). Solo tre opzioni vengono prese in considerazione: (i) la monetizzazione del debito con l’intervento della BCE (la più gradita agli spagnoli, ma anche la meno probabile); (ii) un riscatto alla greca con conseguente commissariamento della politica economica (a patto che si trovino le risorse e la volontà politica a livello europeo per un intervento del genere); (iii) la rottura dell’euro. La seconda opzione resta la più probabile secondo i mercati, ma nessuna può essere esclusa. Per la serie: allacciatevi le cinture.

Secondo: le comunità autonome, che finora facevano a gara per nascondere i loro conti in dissesto, hanno iniziato la corsa a dichiarare bancarotta per prime, nella speranza di essere salvate dal fondo autonomo di liquidità a livello centrale, prima che finiscano i soldi. Un classico esempio di circolo vizioso, innescato da quelli che gli economisti chiamano “vincoli di bilancio soffici”. Traduzione: difficile tenere a freno la voglia di spendere di politici locali che fronteggiano aspettative di crescita effervescenti e la speranza di poter scaricare i debiti sullo stato centrale, qualora qualcosa vada male.

Terzo: la popolarità del governo Rajoy è al minimo (fonte: “El Mundo”). Il PPE, rispetto alle elezioni di novembre, perderebbe 9 punti percentuali se si votasse oggi. Ma, sorpresa delle sorprese per i commentatori spagnoli (un po’ meno per noi italiani), il PSOE crescerebbe soltanto di 0,8 punti percentuali. Ad avvantaggiarsene sarebbero l’estrema sinistra di IU (5 punti) e il partito centrista UPyD (3 punti). Insomma: il bipolarismo a partiti dominanti, che ha garantito decisione nelle scelte di governo e stabilità alla giovane democrazia spagnola, comincia a scricchiolare. Il sistema dei partiti potrebbe avventurarsi verso territori inesplorati.

Cosa è successo? Perché il miracolo spagnolo di crescita economica si è trasformato in un incubo? In verità, osservatori attenti avevano avvisato che il miracolo si reggeva su fondamenta fragili (si veda: Victor Pérez-Diaz, “Una interpretación liberal del futuro de España”, Taurus). Si trattava, infatti, di una crescita “estensiva”, sospinta dalla bolla dell’edilizia e basata su incrementi nell’uso dei fattori produttivi, piuttosto che di una crescita “intensiva” fondata su aumenti di efficienza e della produttività. Nei tempi di vacche grasse, ci si sarebbe dovuti porre il problema per tempo.

È lo stesso nodo dell’Italia (con la differenza che noi veniamo da decenni di stagnazione piuttosto che di crescita estensiva). Anche se le differenze, nel bene e nel male, non mancano. Di sicuro, entrambi i paesi hanno un problema di produttività che ristagna e di crescita che non parte. Ma l’Italia può contare su una maggiore ricchezza delle famiglie e su un maggiore dinamismo imprenditoriale (soprattutto nella fascia media). La Spagna, dal canto suo, ha un’amministrazione pubblica più efficiente e alcune grandi imprese (soprattutto ex monopoliste) con una buona penetrazione dei mercati internazionali.

E la politica? Beh, in entrambi i casi: io speriamo che me la cavo.

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