Mondoperaio

La constituency del cambiamento

Tommaso Nannicini
Democrazia/#politica#riforme

Mondoperaio ha avviato una bella discussione su come costruire, tema per tema, una piattaforma programmatica che parli al merito al bisogno nell’Italia di oggi. Mi inserisco buttandola in politica.
In fondo il marchio di fabbrica della Conferenza programmatica del Psi nel 1982 stava non solo nell’uso provocatorio di due categorie tanto semplici quanto dirompenti rispetto ad altre categorie più pompose presenti nelle ideologie della sinistra. Stava nella domanda, tutta politica, della relazione di Claudio Martelli: “Chi sono i possibili soggetti sociali del riformismo moderno?”. Quali soggetti sociali, sostenitori ed elettori, possono dare gamba a una piattaforma programmatica che cementi un’alleanza tra merito e bisogno?

Per dirla con un termine politico un po’ desueto, ci si interrogava su quale potesse essere il “blocco sociale” di una nuova stagione riformista. Oggi, con il gusto per le parole anglosassoni, ci dovremmo chiedere quale sia la constituency di un’alleanza tra merito e bisogno.
A trentacinque anni di distanza, è da quella domanda (e da quelle categorie) che dobbiamo ripartire: per andare a scovare e mobilitare quella constituency, per darle un senso e uno sbocco di cambiamento. Nella consapevolezza che – per usare le note categorie di Albert Hirschmann – senza quello sbocco al mondo del merito non resterà che l’opzione della fuga (“exit“), non solo all’estero ma anche negli orticelli delle rendite improduttive; e al mondo del bisogno non resterà che l’opzione della protesta (“voice“), spesso rabbiosa e distruttiva. Questo combinato disposto exit-voice rischia di avere effetti irrecuperabili sulle prospettive di crescita e di tenuta sociale del nostro paese. Alla politica, a un “moderno riformismo”, il compito di scongiurare questo esito disastroso.

Parto da una premessa non richiesta. La ricerca di un progetto politico radicato nell’Italia di oggi non può esaurirsi in un’efficace comunicazione politica o in una leadership forte. Intendiamoci: entrambi questi elementi sono essenziali. La sinistra italiana continua a considerarli con sufficienza per una serie di tabù che si porta dietro. Ma la comunicazione, e anche la propaganda politica, hanno una forte dignità democratica: devi far capire che cosa stai facendo a chi ti ha dato fiducia per fare quelle cose, e per farlo capire al di là dei convegni fumosi che appassionano tutti noi.
Una comunicazione snella e capace di raggiungere gli elettori anche con strumenti moderni non può che essere al cuore di un progetto politico. Lo stesso vale per il tema della leadership, con il quale pure a sinistra abbiamo qualche problema, non capendo che le leadership forti servono a cementare i progetti collettivi: ne sono un completamento e non un sostituto.
Ma questi due elementi, comunicazione efficace e leadership credibile, non esauriscono la costruzione di un progetto politico. Dobbiamo andare a cercare la constituency del cambiamento, riscoprendo un lavoro più capillare di costruzione di una piattaforma politica attraverso il dialogo sociale: con i corpi intermedi, con l’associazionismo diffuso e anche con le forme più destrutturate di partecipazione nelle reti sociali. In altre parole, si tratta di ripensare le forme e gli strumenti dell’azione politica.

Dal lato dei contenuti, invece, il lavoro che ci attende è quello di capire perché alcune delle cose che diciamo, a volte da un bel po’, finiamo per non farle quando siamo al governo. Di solito dipende da due strozzature molto diverse tra di loro, che dobbiamo, tema per tema, provare a individuare. A volte c’è un problema di policies, di idee che non funzionano e che dobbiamo superare con una battaglia politico-culturale; altre volte c’è un problema di politics, di idee buone che non trovano la forza di imporsi per vincoli politici o burocratici.
Ovviamente, le due strozzature richiedono rimedi e strumenti di azione politica molto diversi tra loro. Se penso agli stimolanti spunti di Stefano Rolando sul cambio di paradigma che dovrebbe portare le nostre politiche della cultura a pensarsi come politiche di “economia della cultura”, a loro volta sottoinsieme di politiche di una più ampia “economia della creatività”, mi viene da pensare che abbiamo un problema di policies: che siamo ancora troppo indietro con la battaglia per radicare queste idee nella politica e nelle tecnostrutture ministeriali.

Su quei fronti, e non solo su quelli, abbiamo un problema di idee. Ma altre volte non è così: le idee sono giuste, ed è inutile continuare a ripeterle. Bisogna capire perché quelle idee non hanno trovato attuazione, anche quando i riformisti sono stati al governo. Sempre per esempio, sono molto d’accordo con la relazione di Nicola Cacace: una gestione moderna e che guarda al futuro dei flussi migratori è un asset strategico per la crescita. Allo stesso tempo, politiche migratorie gestite male sono una strozzatura per la crescita.
Possiamo usare sofisticati modelli economici per dimostrare che l’immigrazione è una risorsa non solo perché riempie il nostro buco demografico, ma perché aumenta le capacità di crescita attraverso la complementarietà tra lavoratori diversi tra loro. Ma alcuni (le fasce di reddito medio-alte) raccolgono subito i guadagni di questa complementarietà: mentre altri (i lavoratori con basse qualifiche) ne subiscono i costi di breve periodo, perché sono sostituti e non complementi di una parte della forza lavoro che arriva, o perché vivono in zone che non reggono la pressione di un’integrazione mal gestita. E dobbiamo compensare i perdenti di questo aggiustamento necessario con politiche del lavoro, sociali e di lotta al degrado urbano degne di questo nome.

Le politiche migratorie sono un classico esempio in cui non c’è alleanza tra merito e bisogno, ma c’è un conflitto di interessi tra i due. Ma quella alleanza la si può costruire con una visione nuova e con una capacità amministrativa forte di gestione degli impatti dei flussi. È faticoso, ma c’è una da constituency convincere e motivare: non a parole, con un solidarismo di maniera, ma con risposte forti e concrete.
Lo stesso vale dal punto di vista economico generale. Questo paese il problema della crescita non lo scopre con una crisi economica che arriva da fuori: possiamo anche raccontarci questa favola ma non è così. Ovviamente la crisi economica ha pesato, distruggendo capacità produttiva e posti di lavoro nel nostro paese più che in altri: però la stagnazione l’avevamo già prima. I nodi della crescita in Italia sono molto “casalinghi”, perché alcune zavorre strutturali che dovevamo buttare a mare un po’ di tempo fa sono ancora tra noi per un problema di politics: per la mancata costruzione di una constituency stabile intorno alle riforme.

Se vogliamo recuperare il tempo perduto dobbiamo fare uno sforzo di aggiustamento strutturale. Dobbiamo farlo tutti, questo sforzo: imprese, lavoratori, studenti, insegnanti, istituzioni. Possiamo usare termini roboanti, da “globalizzazione” a “industria 4.0”: ma l’aggiustamento strutturale il nostro paese lo ha fatto mille volte.
Vi faccio un esempio banale. Io vengo da una zona che produceva cappelli, ma a un certo punto la gente ha smesso di portare i cappelli. Ce ne siamo fatti una ragione: non abbiamo chiesto un intervento pubblico in cui si obbligassero tutti i dipendenti pubblici a portare cappelli. Tutti si sono rimboccati le maniche, e un tessuto politico e istituzionale, un tessuto imprenditoriale vivo e relazioni industriali solide hanno creato un processo di aggiustamento che ha spostato l’economia verso altri sbocchi.

Noi dobbiamo fare questo sforzo di aggiustamento strutturale in tutto il paese: dobbiamo spostare capitale e lavoro da settori poco produttivi a settori più produttivi, e dobbiamo farlo in fretta, perché il mondo corre più veloce di un tempo. Purtroppo, l’aggiustamento strutturale non è un pranzo di gala: crea costi, crea perdenti nel periodo di transizione. Rispetto ai perdenti possiamo far finta di niente, girarci dall’altra parte: ma poi giustamente si vendicano e bloccano i processi di cambiamento. Oppure possiamo farcene carico con politiche di inclusione.
Di nuovo: forgiando un’alleanza tra merito e bisogno, in cui chi può correre viene messo in condizione di farlo e a chi resta indietro viene offerta una seconda chance con un patto sociale chiaro, per cui a nuovi diritti corrispondono nuovi doveri di attivazione sociale. L’alternativa è lasciare i perdenti dei processi di aggiustamento alla mercé di qualche populista che cavalca ansie e paure di un cambiamento che crea necessariamente costi sociali.

E questo lo dico con il massimo rispetto per i populisti, da ammiratore dell’azione politica e dell’autonomia della politica. Loro sono imprenditori politici che cavalcano ansie e paure che esistono nel tessuto sociale in fasi di profondo mutamento. Piuttosto che guardarli dall’alto in basso, dobbiamo sfidarli sul loro terreno: quello dell’autonomia della politica, di una politica che si assuma la responsabilità delle proprie scelte recuperando anche un senso di estraneità e di disillusione di ampi strati della popolazione rispetto alle scelte collettive, rispetto ai processi politici.
Tutto questo, ovviamente, è facile a dirsi ma complicato a farsi. Ma la felice intuizione dell’alleanza tra merito e bisogno mi sembra ancora la strada da percorrere: anche perché alternative solide non ne vedo. Nel 1982 Martelli lo disse con lungimiranza: le uniche alternative alla costruzione di quella alleanza erano due derive, quella tecnocratica e quella assistenzialista. Adesso che le abbiamo provate entrambe e ne abbiamo visto tanto i costi quanto i limiti, dobbiamo rimboccarci le maniche per costruire la constituency dell’alleanza tra merito e bisogno.

Dove andiamo a trovarla questa benedetta constituency? Non è semplice, ovviamente. Nella sua relazione Antonio Putini sottolineava come nelle nuove generazioni non si veda ancora la “spinta a prendersi ciò che gli appartiene”. Perché non si vedono contestazioni di fronte agli squilibri generazionali più marcati del nostro sistema di welfare?
I motivi sono tanti, dalle distorsioni del processo politico ai tratti familistici della nostra rete di protezione sociale. Ma giriamo il discorso in positivo. La voglia di partecipazione sociale e di cambiamento dei giovani non la vedi più nei partiti, ma in altre forme di impegno, dal volontariato ai movimenti su singole questioni, fino alla partecipazione più frammentata nelle reti sociali. I partiti devono tornare ad essere interlocutori e magneti di questa voglia di partecipazione: senza pensare di imbrigliarla o metterci sopra qualche cappello, ma costruendo luoghi di confronto ed elaborazione che li facciano percepire come interlocutori credibili.

Chiudo con un altro piccolo esempio (e con una piccola pennellata di propaganda pro governo Renzi). Nell’ultima legge di bilancio abbiamo inserito un pacchetto che investe più di 150 milioni strutturali all’anno per favorire il diritto allo studio universitario: un pacchetto multidimensionale affinché i capaci e meritevoli anche se privi di mezzi possano accedere ai livelli più alti degli studi. Ci sono interventi più tradizionali, come un’area di reddito sotto la quale non si pagano le tasse o borse di studio gestite a livello regionale. E accanto a questi strumenti tradizionali (rifinanziati) abbiamo inserito anche un piccolo ma significativo intervento da 20 milioni per gli studenti meritevoli che vengono da famiglie in condizioni di fragilità economica (Isee basso).
In collaborazione con le scuole, la fondazione pubblica “Articolo 34” farà scouting ogni anno per individuare quattrocento studenti particolarmente meritevoli che vendono da background familiari disagiati. A questi quattrocenti studenti, selezionati in base al loro talento (che non vuol dire solo avere voti alti ma anche essere particolarmente predisposti per una qualche materia), la fondazione darà quindicimila euro esentasse all’anno non solo per coprire i costi materiali degli studi, ma anche il costo-opportunità di non andare a lavorare subito in assenza di un supporto familiare.

Da quando abbiamo messo questi venti milioni (insieme a tutti gli altri che raggiungono una platea davvero ampia di studenti in condizioni di bisogno), ecco che sono scattate le proteste dei professionisti della contestazione, che ti spiegano che queste super borse per quattrocento studenti sono la solita visione meritocratica e distorsiva che non premia tutti. Ecco il solito tabù anti eccellenze (eccellenze povere, tra l’altro, in questo caso): per cui l’unica strada che la sinistra può prendere secondo i professionisti di cui sopra è quella di un finto egualitarismo in cui alla fine coloro che sono sempre più eguali degli altri sono quelli che hanno le spalle coperte da famiglie forti.
Questo e altri tabù vanno scalfiti senza timidezze, se questa benedetta alleanza tra merito e bisogno vogliamo farla vivere non solo nei nostri convegni, ma nel vivo del tessuto economico e sociale del nostro paese. Non sarà una passeggiata né un pranzo di gala: ma resta un orizzonte politico e ideale per cui, a mio giudizio, vale la pena spendersi con tutte le risorse che noi liberal-riformisti riusciremo a mobilitare.

[Relazione presentata nel corso del seminario sul tema “Dalla società dei due terzi all’alleanza fra meriti e bisogni” che si è svolto a Milano lo scorso 26 novembre, e le cui relazioni introduttive sono state anticipate nel numero di dicembre di MondOperaio]