Questa analisi è tratta da un saggio più esteso pubblicato sul numero appena uscito della rivista “il Mulino” (4/24).
Ha senso parlare di “postpopulismo”, come in molti abbiamo fatto in questi anni, ora che Trump è tornato alla Casa Bianca? Sì, per due motivi. Il primo è che tutti i cicli politici hanno una fine, dall’onda socialdemocratica a quella liberista. Il secondo è che proprio quando raggiungono l’apice e prendono il potere, i movimenti politici pongono le basi per il loro superamento o la loro trasformazione. Il populismo non farà eccezione. E il laboratorio italiano, pur con tutte le differenze, sta lì a ricordarcelo. Nel 2016, Trump usò il populismo come trampolino elettorale e finì per governare alla giornata. Ora, con l’aiuto di Musk e Vance, vuole ingegnerizzare una nuova cultura di governo.
Il populismo è un’idea controversa. Politologi e filosofi litigano su come definirlo. Economisti e sociologi litigano su quali ne siano le cause. Rispetto alle definizioni, potremmo cavarcela dicendo che il populismo è un po’ come il carisma: nessuno sa bene cosa sia, ma tutti lo riconoscono quando lo vedono. Rispetto alle cause, i due filoni che vanno per la maggiore sono gli studi sulle ragioni “economiche” o “culturali” del populismo. Sono meno frequenti gli studi che ne identificano le cause “politiche”. Quando lo fanno, di solito, puntano il dito contro l’austerità e i tagli ai servizi pubblici territoriali, dagli ospedali agli uffici postali, non contro la crisi della politica come processo collettivo per la gestione dei conflitti. Le cause dell’ascesa del populismo, intese come condizioni necessarie ma non sufficienti, sono invece prevalentemente politiche. Le crisi economiche o sociali possono esserne condizioni facilitanti, dotando i populisti di argomenti utili per occupare uno spazio elettorale. Ma solo a patto che la crisi della politica abbia inizialmente creato quello spazio.
Le ansie economiche o i rancori culturali sono la diavolina che scatena il fuoco populista, non la legna che lo alimenta. Dopo quel monumentale Arco della Storia che è stato il 1989, abbiamo buttato via troppi bambini con l’acqua sporca. Per superare la rigidità delle ideologie, abbiamo smarrito gli ideali. Per rimuovere i mali della partitocrazia, abbiamo rottamato i partiti. Per ridurre le distorsioni dello stato sociale, la sua burocratizzazione e la sua crisi fiscale, abbiamo perso di vista nuovi rischi e ingiustizie. Mentre tecnica e globalizzazione erodevano gli stati nazionali, non abbiamo creato altre forme di sovranità per permettere alla politica di dare risposte. Così facendo, abbiamo aperto uno spazio di rabbia e disincanto, che molti imprenditori politici hanno occupato usando il populismo come strategia.
Allo stesso modo, è proprio per ragioni politiche che la parabola del populismo stia per raggiungere il suo culmine. Questo non vuol dire che scompariranno politici e partiti che oggi vengono definiti populisti. O che scomparirà il populismo come fiume carsico che affiora ogni tanto nelle nostre democrazie. Ma che l’egemonia che ha portato molti di questi politici a vincere elezioni dopo elezioni, prendendo le redini dei loro paesi, così come l’abbiamo conosciuta negli ultimi due decenni, è destinata a scemare. Ci sono due forze che spingono in questa direzione. La prima potremmo chiamarla “assimilazione” o normalizzazione. Per la serie: puoi essere una novità, un outsider, una volta sola. Dopo un po’ anche i populisti diventano élite e devono dare risposte. Di solito, questo genera una dinamica tutta interna alla politica del disincanto, per cui il discredito di un leader o di un partito populista, se i partiti tradizionali non recuperano credibilità, si limita a creare il presupposto per il successo di un nuovo populista, magari diverso non solo nel nome ma nella visione del mondo a cui questa ideologia “sottile” tende ad attaccarsi. La politica non ammette vuoti. Ma qui entra in scena la seconda forza, quella della “saturazione” o dei rendimenti marginali decrescenti del malcontento. A un certo punto, anche in fasce dell’elettorato più inclini al voto populista, questo continuo dar sfogo alla propria rabbia passando da un populista a un altro, magari intervallandoli con un po’ di astensionismo, crea un senso di insoddisfazione.
Intendiamoci: non sto riproponendo l’ipotesi, molto in voga tra gli economisti che hanno studiato l’America Latina, per cui la fine dei populisti è figlia delle loro politiche insensate, che inevitabilmente mandano un paese a gambe all’aria. Il populismo non declinerà per via dei suoi errori al governo. Finché qualcun altro non produrrà soluzioni, ci sarà sempre uno spazio per la politica del malcontento. Succede spesso, però, che la fine di un ciclo politico nasca dal suo successo. L’egemonia socialdemocratica è finita perché ha fornito quello che le veniva chiesto: stato sociale e redistribuzione. Anche il populismo sta dando quello che gli viene chiesto: uno sfogo per la rabbia e il disincanto di fronte alla crisi della politica tradizionale. Nessuno gli ha chiesto soluzioni, tanto quelle nessuno le ha. Ma la rabbia e il disincanto, alla lunga, stancano. E sarà dalla stanchezza della rabbia, per una sorta di ciclo politico delle “aspettative deluse” alla Albert Hirschman, che arriverà il superamento dell’egemonia populista.
Che cosa accadrà dopo? Al momento, il postpopulismo – al pari dell’arte postcontemporanea o della società postindustriale – sembra definito solo da ciò che si appresta a sostituire. Di sicuro, si aprirà uno spazio per nuove forme di politica inclusiva, che magari non avranno la pesantezza delle ideologie e dei partiti del secolo breve, surferanno la superficie delle cose come i “barbari” di Alessandro Baricco, ma creeranno ugualmente spazi di re-intermediazione, riducendo il fossato tra “noi” e “loro”. E di sicuro si farà sempre più forte la necessità di costruire forme di sovranità sovranazionale. Come ha scritto Giovanni Orsina su queste colonne, destra e sinistra devono ancora vincere la sfida di darsi un volto postpopulista, capace di riattivare la fiducia di chi deve votarli. Ma se queste soluzioni non prenderanno forma, si concretizzerà il rischio di uno svuotamento definitivo degli spazi della politica, lasciando le democrazie liberali come gusci vuoti in balia di dinamiche cripto-autoritarie.
Insomma, il postpopulismo è un bivio. Da una parte una politica che torna a farsi inclusiva, dall’altra una democrazia ristretta. Detto così può sembrare tutto e il contrario di tutto. Ma questo schema ci fa porre la domanda giusta: non come contrastare il populismo, ma quali fattori possono far sì che, in contesti diversi, il postpopulismo prenda una direzione o l’altra.
Vai al contenuto