Mentre i conti pubblici italiani tornano a essere un sorvegliato speciale in Europa, ripercorriamo la loro evoluzione negli ultimi cinquant’anni con l’aiuto di un grafico. La vulgata corrente fa risalire le radici del dissesto agli anni ’80, quando il rapporto tra debito pubblico e Pil esplode. Al massimo, ci si divide sui colpevoli. Per alcuni, è tutta colpa della corruzione politica. Per altri, è colpa del “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia, antesignano del rigore monetarista del PUDE (il partito unico dell’Euro). Il quadro è un po’ più articolato. Il nostro debito ha radici antiche e, piaccia o no, la sua eredità è di tutti.
Il disavanzo primario (la differenza tra spese e tasse al netto degli interessi sul debito) inizia ad allargarsi verso la metà degli anni ’60 e tocca il suo picco a metà degli anni ’70 (area rossa). Dal 1964 al 1975, la nostra spesa pubblica passa dal 31,5 al 41,9 percento del Pil. Un aumento simile, in verità, a quello che si registra in Francia, Gran Bretagna e Germania Ovest: tutti paesi che passano da cifre intorno al 30 percento a cifre sopra il 40 nello stesso decennio. Le nostre entrate, però, rimangono invariate (attorno al 30 percento), mentre negli altri paesi fanno registrare aumenti equiparabili a quelli dal lato delle spese (nell’ordine di 10 punti di Pil). È quindi dal lato delle entrate (leggi: tasse) che si annida l’anomalia italiana. Dal 1964 in poi, una parte sempre maggiore delle nostre politiche pubbliche è finanziata in disavanzo. Per carità, molte di quelle spese erano legittime. Era solo insostenibile il modo con cui abbiamo deciso di finanziarle.
Prima degli anni ‘80, quegli squilibri si sorreggono grazie all’alta inflazione e a tassi reali negativi per alcuni periodi. Dopo, si lascia esplodere il debito. Per carità, l’errore degli anni ‘80 è quello di non trovare il coraggio politico di accompagnare la stabilizzazione monetaria con una stabilizzazione finanziaria. L’area rossa inizia a restringersi, ma non abbastanza da compensare l’esplosione nella spesa per interessi (la differenza tra le linee della spesa totale e della spesa primaria nel grafico). Ma in ogni caso gli squilibri nella gestione dei conti pubblici iniziano prima.
Se le radici del nostro debito pubblico sono antiche – di nuovo: piaccia o no – le vie d’uscita sono altrettanto lunghe. Un po’ d’inflazione aiuterebbe, ma pensare di riassorbire uno stock del debito di queste dimensioni solo per quella via – anche sorvolando sul fatto che non possiamo farlo finché restiamo nell’Euro – trascura le iniquità che genererebbe (la tassa da inflazione è fortemente regressiva). Privatizzazioni e dismissioni del patrimonio pubblico, se gestite senza svendere più del dovuto, sono utili, ma qualcosa è già stato fatto e i margini rimasti non sono sufficienti. Pensare di tassare in via straordinaria la ricchezza privata che si è accumulata all’ombra del debito pubblico (prima che la stagnazione economica iniziasse a eroderla lentamente) ha una sua logica, ma finirebbe per far pagare il conto alle povere “formiche”, cioè a quelle famiglie che hanno usato i margini lasciati aperti dalla spesa pubblica in disavanzo per risparmiare piuttosto che per finanziare i loro consumi correnti nei decenni dell’abbondanza.
Purtroppo non esistono scorciatoie. L’area dell’avanzo primario (quella color verde acqua) continuerà ad accompagnarci ancora per un bel po’. Permettendoci di riassorbire lentamente lo stock del debito rispetto al Pil, ma imponendo molti vincoli ai nostri futuri governi. Come mi è capitato di argomentare in un intervento sul famigerato Excelgate, la storia della nostra finanza pubblica ci ricorda che esistono ragioni tutte keynesiane per chiedere il rigore dei conti: la dura eredità di un debito elevato finisce per legare le mani proprio a chi vorrebbe gestire le politiche di bilancio in chiave anticiclica. Nessun pasto, si sa, è gratis.
Vai al contenuto