Nell’ultima puntata di Servizio Pubblico, l’ingegnere Michele (livornese doc, pensionato con quasi 40 anni di contributi e circa 7.000 euro lordi al mese) ha battagliato con Matteo Renzi sull’ipotesi di un contributo d’equità sulle pensioni d’oro e d’argento. L’argomento di Michele non fa una piega. Basta con un approccio meramente “quantitativo” che guarda solo all’ammontare della pensione; serve un approccio “qualitativo” che consideri i contributi versati da ciascuno.
È proprio questa la logica di una proposta che mi è capitato di rilanciare spesso negli ultimi due anni (su Europa, Linkiesta, alla Leopolda 2012 e in una serie di articoli con Tito Boeri sulavoce.info). Bisogna intervenire sulle pensioni già erogate con il retributivo (in toto o pro rata) non per ragioni di cassa, ma di equità attuariale e tra generazioni.
La proposta si basa su una doppia soglia, che lascia sì stare i pensionati sotto una soglia minima di pensione e tutti quelli che hanno un reddito commisurato ai contributi versati, ma chiede un piccolo contributo a “chi ha avuto di più” da regole troppo generose.
La risposta di Renzi a Michele ha avuto due punti di forza e un’esitazione. Parlando delle distorsioni che possono annidarsi nella reversibilità anche di pensioni basse, Renzi ha posto giustamente l’accento sull’esigenza di guardare al reddito complessivo da pensione. Ci si stracci pure le vesti per rivalutare di qualche punto percentuale gli assegni superiori a sei volte la minima, ma si tenga conto che di assegni si sta parlando. In media, ogni pensionato italiano ne riceve 1,4. È quindi possibile che il reddito di chi riceve una pensione del genere non sia d’oro, ma difficilmente sarà sotto la soglia di sopravvivenza.
Ieri, il Pd ha proposto di ridurre la soglia sopra la quale far scattare il contributo di solidarietà previsto nella legge di stabilità, in modo da recuperare risorse per attenuare la deindicizzazione di pensioni non troppo alte. L’emendamento ha una sua ratio, ma continua a guardare agli assegni piuttosto che al reddito. E non lega gli interventi alla storia contributiva. L’altro punto di forza di Renzi è stato quello di riconoscere che, anche se il flusso di gettito da attendersi non è enorme (intorno a 1 miliardo all’anno fino alla fine della transizione completa al contributivo), si deve procedere lo stesso per ragioni di equità.
L’esitazione è stata quella di non cavalcare fino in fondo l’argomento che si devono toccare solo le pensioni non perfettamente allineate ai contributi. È vero, Renzi ha riconosciuto che gli interessa colpire il bonus ricevuto da chi è andato in pensione col retributivo. Ma questo bonus è molto diverso a seconda dei casi. Occorre distinguere, senza sparare nel mucchio. Michele, per esempio, non è stato preciso su un punto.
È vero che il retributivo prevedeva già tassi di rendimento più bassi per chi aveva redditi alti. Ma più bassi rispetto ai regali degli altri, non rispetto a un calcolo attuarialmente equo. Può darsi che in alcuni casi il rendimento sia stato giustificato, ma non lo sappiamo. È anzi probabile che proprio nelle pensioni più alte si annidino i rendimenti maggiori, perché parliamo di carriere lavorative per cui lo stipendio è aumentato molto nel tempo, fattispecie che gonfiava il bonus del retributivo.
Il punto è capire se il reddito da pensione sia giustificato rispetto ai contributi versati oppure no. Perché non lo si è ancora fatto? Mistero. L’Inps ha i dati sui lavoratori privati. E sarebbe un gioco da ragazzi ricostruirli per i dipendenti pubblici ex gestione Inpdap, usando la storia lavorativa e l’età alla pensione. Santoro, Renzi e Michele sembrano d’accordo nel voler toccare solo i “regali acquisiti”. Magari, nella prossima puntata, Santoro potrebbe invitare il presidente dell’Inps per chiedergli di rendere pubblici questi dati. Sulle pensioni, è la trasparenza a essere d’oro.
Vai al contenuto