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La politica è morta, viva la politica

Tommaso Nannicini
Democrazia/#politica

Diciamolo subito, a scanso di equivoci. Nel pacchetto liberalizzazioni del governo Monti ci sono misure egregie e altre meno, settori in cui si promette di incidere in profondità (scorporo Eni-Snam) e altri dove ci si ferma in superficie (farmaci, notai). Ciò non toglie che l’esecutivo stia tenendo fede agli annunci: dopo un pacchetto d’emergenza fatto per 2/3 di tasse, arrivano le promesse aperture alla concorrenza. E a questo punto c’è da dargli credito quando promette che non si fermerà, prendendo di petto lavoro, giustizia, scuola e fisco. Il tutto all’interno di una visione, tutta politica, che comincia a prendere forma e sostanza. La visione che per rimettere in moto l’Italia occorra incidere sugli incentivi (e sugli interessi) di tutti gli italiani: abbattendo rendite di posizione che – legittime o meno che siano – non possiamo più permetterci, facendo in modo che le risorse vadano a premiare chi è disposto a rischiare, investire, sgobbare.

Di fronte a questa sfida, la classe politica si limita a dare pagelle, dicendo che cosa non va e come si potrebbe fare meglio. Il problema è che per dare lezioni bisogna essere abilitati. E in tema di riforme gli ultimi due decenni, governati in perfetta alternanza dal centrosinistra e dal centrodestra (leader del Terzo Polo inclusi), non sono proprio una credenziale di ferro. Per carità, è legittimo e doveroso che i partiti di maggioranza offrano correttivi alle misure che sono chiamati ad approvare in Parlamento. Il loro compito, però, dovrebbe essere quello di farlo non come maestrini che dispensano giudizi di fine anno, ma come politici che offrono al paese una visione d’insieme. Motivando come intendono inserire le riforme liberali di un governo d’unità nazionale all’interno delle loro future (e distinte) proposte per il paese.

Silvio Berlusconi sembra non accorgersi che il suo “ci aspettiamo di essere richiamati” suona come una minaccia per la maggioranza degli italiani. E altrettanto minacciosa suona la promessa di Rosy Bindi che “all’orizzonte c’è il rilancio del centrosinistra e la collaborazione con il Terzo Polo”. Vendola, Di Pietro e Casini? Per fare cosa? La Bindi ci tiene a precisare che quello attuale “non è il nostro governo” perché “abbiamo un programma e un progetto politico diverso”. Come si concili questo programma con le riforme messe in campo dal governo non è dato sapere, salvo essere rimandati ai testi di conferenze programmatiche il cui effetto soporifero è assicurato. Per la serie: la melatonina del Pd contro gli antibiotici del governo Monti. Non è difficile diagnosticare cosa serva di più a un paese che deve rimettersi in piedi.

Né aiutano a chiarirsi le idee i segretari dei due maggiori partiti. Alfano schiera il Pdl “a favore delle liberalizzazioni”, salvo precisare che va preservato il modello italiano per “non uccidere mestieri e professioni”. Tradotto: teniamo vivo il patto consociativo della Seconda Repubblica per cui ognuno propone riforme che toccano gli elettori del blocco avversario, ma alla fine non si fa niente di fronte ai veti incrociati di questa o quella categoria. Bersani rivendica che è stato il governo Prodi “a cominciare con le liberalizzazioni che ora si cerca di spacciare per una novità”. Ma finge di non vedere che per Monti quelle misure sono solo uno dei tasselli di un programma complessivo di apertura e svecchiamento della società italiana, mentre per il governo Prodi avrebbero dovuto conciliarsi con la linea Damiano-Ferrero, con l’abolizione dello scalone e con le mancate riforme nel pubblico impiego, nella scuola e nell’università. E non è difficile prevedere che le parti tra Alfano e Bersani si invertiranno parlando di lavoro, col primo che preme sull’acceleratore e il secondo che mette in guardia da salti nel buio.

Il governo Monti ha un solo modo per sfuggire ai veti incrociati e ai ritardi della politica italiana. Andare avanti per la sua strada, presentando al paese e alla politica tutti i tasselli della sua piattaforma. Di fronte alle proteste di queste giorni, c’è una sola via d’uscita. Rilanciare. Altrimenti, come ha ammonito Luigi Zingales sul Sole, avranno ragione i tassisti a lamentarsi di venire immolati sull’altare di un cambiamento che si materializza solo per alcuni.

Ci sono settori da cui provengono molti membri del governo (università, banche, alta dirigenza della pubblica amministrazione) in cui ci sono rendite da sfoltire. Perché non affrontare il tema dell’apertura del settore bancario, sciogliendo il nodo della separazione tra fondazioni e banche? Perché non proporre una terapia shock per l’università, con il 25% delle risorse assegnate valutando la ricerca, l’abolizione del valore legale, la liberalizzazione di reclutamento e stipendi? Perché non dare un’occhiata alla lista dei consigli d’amministrazione (per lo più composti da ex politici o tecnici specializzati in relazioni romane) di questi enti censiti dall’Istat? Fermo restando che una seria attività di spending review dovrebbe capirne l’effettiva utilità, perché non cominciare proprio sfoltendo i consigli e portando enti affini sotto un unico centro di indirizzo? E ci sono macro riforme che non possono più aspettare. L’allargamento del welfare a tutti i lavoratori. La riforma del lavoro: non per aumentare l’occupazione (perché su questo hanno ragione i laburisti del Pd nel dire che la flessibilità in uscita non aumenta gli stock occupazionali), ma per aumentare la mobilità, favorire le riallocazioni produttive e aumentare la produttività. L’abolizione di ogni aiuto discrezionale alle imprese riducendo in egual misura il carico fiscale.

A quel punto, non ci sarebbero più alibi per partiti e forze sociali. E si capirebbe se l’Italia è pronta a cambiare davvero, o sta solo facendo finta in attesa che i mercati si scordino del suo debito e della sua crescita stagnante. A quel punto, anche il Pd dovrebbe decidere se abbracciare con vigore le riforme Monti, inserendole in una prospettiva di cambiamento che coniughi mobilità sociale ed eguaglianza delle opportunità, o aspettare che lo faccia qualcun’altro. Perché una delle poche leggi infallibili della politica è che quando si crea un vuoto, qualcuno lo riempie.

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