Mondoperaio

La rivoluzione fantasma

Tommaso Nannicini
Economia/#riforme

Uno spettro si aggira per l’Italia: la Seconda Repubblica. Figlia, a sua volta, di un altro essere impalpabile: la rivoluzione italiana.
Sono proprio questi fantasmi ad alimentare la confusione che domina il panorama politico.
E’ impressionante, infatti, la faciloneria con cui abbiamo tentato il passaggio alla cosiddetta Seconda Repubblica. Durante la campagna per le elezioni del 27-28 marzo, tutti i nostri guai sono stati ricondotti, sia da destra sia da sinistra, a un problema di sprechi e ruberie.
Non una parola sull’esigenza di incidere in profondità sui modi di assunzione delle politiche pubbliche.

Il Grande Equivoco

Si è riusciti a far attecchire la convinzione che ogni problema del paese nasceva dal fatto che vi avevano messo le mani Craxi e Andreotti, o- peggio ancora- De Lorenzo. Il corollario di questa visione era semplice: bastava liberarsi di questi ceffi e i guai sarebbero d’incanto spariti. E’ questo il grande equivoco, il patto consociativo sul quale si voleva erigere la Seconda Repubblica. Da Ignazio La Russa a Fausto Bertinotti, da Achille Occhetto a Cesare Previti, tutti i “nuovi” hanno cercato di far passare questa lettura dei fatti, i cui soli esiti possibili erano il trasformismo e la conservazione. Non c’è bisogno di sottolineare come gli errori politici e i reati penali della vecchia classe dirigente rendessero necessario un ricambio radicale. Ma aver fatto credere che questo sarebbe bastato ha dato alla transizione italiana un esito di natura conservatrice. Altro che rivoluzione! Una rivoluzione non è mai un “fatto giuridico”, cioè qualcosa di già previsto dall’ordinamento vigente, come le condanne per violazioni del codice penale. Essa è sempre un “fatto normativo”, cioè qualcosa che produce nuove regole, nuovi rapporti e comportamenti sociali.
La rivoluzione italiana si è rivelata un gigantesco bluff. E adesso che i vecchi protagonisti della politica sono stati spazzati via, ma i problemi restano sul campo, i “nuovi” sono chiamati a far vedere le carte che hanno in mano. Temo fortemente che molti non abbiano il poker che ci hanno fatto credere di possedere. “In politica- sosteneva Napoleone III- bisogna guarire i mali, non vendicarli”. Quale compito dovrebbe assolvere, allora, una classe dirigente degna di questo nome? Dovrebbe avere il coraggio di spiegare le radici dei problemi finanziari e della debolezza istituzionale, indicando serie vie d’uscita (senza dubbio più vicine a un faticoso percorso che non a un folgorante miracolo). Ma nello stesso tempo dovrebbe rendere visibili i benefici collettivi in termini di benessere futuro e di modernizzazione- di un simile percorso. Assumendosene la responsabilità.
Prendiamo il problema del risanamento finanziario e della riforma dello stato sociale. Le radici della scollatura tra compatibilità economiche e via italiana al welfare state sono state evidenziate ottimamente da uno studioso del calibro di Maurizio Ferrera (in “La logica delle scelte pubbliche: il caso delle politiche distributive”).In tutta Europa, il welfare state nasce, a cavallo tra ‘800 e ‘900, con dichiarati obiettivi redistributivi. Nasce, insomma, come stato sociale “modello Robin Hood”, che toglie ai ricchi per dare ai poveri. Con gli anni ‘50, il welfare state cambia volto, parallelamente al cambiamento delle nostre società, che passano da una forma “a piramide” (con pochi ricchi in cima e molti poveri in fondo) ad una “a diamante” (con un’enorme “massa media” nel mezzo). Proprio questa “massa media” è diventata la protagonista del welfare state, come sua beneficiaria e come sua finanziatrice. La natura delle politiche sociali è così diventata essenzialmente distributiva: si elargiscono benefici a questa o quella categoria, senza imporre costi visibili a nessun altro. Dallo stato sociale “alla Robin Hood” si è passati allo stato sociale “modello Babbo Natale”. E per farlo si sono utilizzati due potenti strumenti di sommersione e diffusione dei costi: inflazione e debito pubblico. Questo passaggio dalla redistribuzione alla distribuzione senza costi apparenti è avvenuto nel rispetto delle compatibilità economiche grazie agli alti tassi di sviluppo delle nostre economie. Ma, a partire dagli anni ‘70, la musica è cambiata. Oggi tutti i governi occidentali si trovano a dover affrontare la tensione tra compatibilità economiche e aspettative politiche.
In Italia, i problemi finanziari legati alla spirale distributiva della spesa pubblica sono particolarmente gravi. Le radici del dissesto possono essere ricercate nel decennio 1965-75, durante il quale la spesa italiana è passata dal 30,6% al 38,3% del Pil, mentre in Francia è passata dal 33,7 al 39,2%, in Inghilterra dal 30,9% al 39,6%, in Germania dal 30,4% al 43,1%. Aumenti simili, come si vede. Nello stesso decennio, però, le nostre entrate sono passate solo dal 30% al 31,2% del Pil, contro un incremento dal 38,4% al 41,3% in Francia, dal 33,4% al 40,1% in Inghilterra, dal 35,3% al 42,4% in Germania. Dal 1965 in poi, nel nostro paese una parte sempre maggiore delle politiche sociali è stata finanziata in disavanzo.

La Grande Riforma

Resta aperta una domanda: perché tale squilibrio si è verificato proprio in Italia? La risposta ce la fornisce il già citato Ferrera, con un’analisi comparata. In Svezia, ad esempio, la logica distributiva ha trovato un freno nel cosiddetto “neo-corporativismo” (poche e ampie organizzazioni sociali in grado di contrattare tra loro e con il governo le principali politiche economiche). In Inghilterra, la dinamica bipartitica della competizione politica ha fatto sì che uno dei due partiti abbandonasse la tattica delle elargizioni categoriali, per abbracciare quella della valorizzazione di interessi diffusi. E’ questa la tattica che portò la Thatcher alla vittoria nel 1979.In Francia, la logica distributiva ha trovato un freno nel sistema istituzionale della Quinta Repubblica, caratterizzato da forti istituzioni centrali- esecutivo e burocrazia statale- capaci di imporre il rigore nonostante pressioni esterne di segno contrario.
In Italia, nessuno degli anticorpi descritti si è messo in moto. Anzi. La frammentazione della società civile e la sua propensione alle piccole rivendicazioni, l’assenza di una periodica alternanza di governo, la debolezza del nostro assetto istituzionale: tutti questi fattori hanno moltiplicato la logica distributiva, favorendo un’espansione del welfare state tra le più squilibrate in Europa. Se si condivide questa ricostruzione (a mio avviso difficilmente contestabile), si deve pun-tare a rimuovere gli handicap indicati. In altre parole, bisogna abbandonare il Grande Equivoco per affermare l’esigenza e l’urgenza della Grande Riforma. Una riforma che ci consegni delle istituzioni forti e capaci di adottare quelle politiche, a benefici diffusi e con costi visibili, di cui abbiamo bisogno. Per quanto riguarda il sistema politico, la nomination di Romano Prodi è un elemento che va nella direzione giusta: sia perché accelera il passaggio a una competizione maggioritaria matura; sia perché porta alla ribalta un personaggio capace- spero- di indicare una seria via d’uscita dalla crisi italiana. Ma certi ritardi permangono. In futuro, si dovranno trovare metodi di selezione dei candidati a premier più sicuri e democratici, rispetto alla semplice “discesa in campo” di questo o quello. Lo schieramento democratico, inoltre, resterà zoppo finché una forza autonoma dal Pds non saprà farsi interprete di un messaggio liberale e riformista. Riguardo al sistema istituzionale, d’altro canto, nessun cambiamento rilevante si è concretizzato. E’ davvero l’ora di aprire il cantiere della Grande Riforma.
La Grande Riforma dovrebbe incidere sulla forma di governo, andando incontro a un’esigenza di responsabilizzazione del potere. In particolare, dovremmo rafforzare il ruolo dell’ esecutivo nel nostro assetto istituzionale. La Grande Riforma, inoltre, dovrebbe incidere sulla forma di stato, attraverso il tema del federalismo. Facendo attenzione a tenere la proposta federalista distante da due estremi opposti: dal confederalismo (dall’Italia spaccata in tre) e dal semplice decentramento.
Resta da chiedersi che cosa rappresentino le prospettive appena auspicate da chi scrive. Utopie? Sì, senza dubbio. Ma se qualcuno si convincesse che gli italiani non sono così stupidi da voler chiudere gli occhi di fronte alle radici dei loro problemi; e che molti potrebbero dare il loro consenso a un progetto radicalmente innovativo, purché adeguatamente spiegato: allora questo qualcuno, forse con stupore, potrebbe trovarle utopie possibili.