«Non lasciare che il passato decida chi sei, ma permettigli di essere parte di chi diventerai». Non Gramsci, non Pasolini e nemmeno Mandela o La Pira. Sceglie una citazione da “Il mio grosso grasso matrimonio greco” Tommaso Nannicini, per descrivere la guerra intestina al Partito Democratico dopo la rovinosa sconfitta del 4 marzo, e per indicare una possibile via d’uscita. Anche se di grasso, in questo momento c’è molto poco, nel Pd, di sicuro non il consenso ridotto all’osso di uno striminzito 15%. E di greco, oltre allo spread, c’è solo il rischio della pasokizzazione, di una discesa a perdifiato verso l’irrilevanza.
Nannicini, ieri consigliere economico e poi sottosegretario di Renzi, oggi membro della segreteria Pd guidata da Maurizio Martina, al passato non ci vuole pensare più, ma si ritrova in un dibattito polarizzato solo ed esclusivamente sull’eredità del passato. Sono trascorse solo poche ore dal Forum per l’Italia di Milano, organizzato da Martina e officiato da Pedro Sanchez del Psoe spagnolo, che governa insieme a Podemos, che diversi renziani ortodossi hanno ribattezzato la Leopolda degli ingrati, puntando il dito contro i renziani, o gli alleati di Renzi, che, a loro dire, hanno fatto abiura del loro recente passato per abbracciare le posizioni dell’allora minoranza interna: Martina, Delrio, lo stesso Nannicini: «Sbaglia chi coglie ogni occasione per fare polemica. Sbaglia perché uccide sul nascere lo sforzo collettivo di guardare avanti».
Però a Milano si è parlato molto spesso della necessità di un’autocritica…
«Si è parlato molto di futuro. E comunque autocritica non vuol dire abiura, né tantomeno lesa maestà. Non c’era solo Matteo Renzi, c’erano ministri, dirigenti di partito, sottosegretari, consiglieri. La responsabilità è collettiva. Così come dovrebbe esserlo l’orgoglio per le tante cose buone fatte per il Paese. Se dico che alcune cose andavano fatte in altro modo, sto parlando anche di me stesso. Le leadership, anche quelle più forti e carismatiche, vanno aiutate, non vanno lasciate sole. Dopodiché, fermiamo questo dibattito tafazziano. Se rivendichi quello che abbiamo fatto, non sai guardare avanti. Se cerchi di aggiornare lessico e proposte, sei un traditore. È assurdo. Orgoglio e autocritica possono camminare insieme, a patto che l’autocritica non porti all’autoflagellazione e l’orgoglio non produca conservazione».
Cos’è stato allora il vostro Forum?
«È stato il tentativo di capire cosa è andato storto allargando lo sguardo alle grandi tendenze in atto nel mondo, dal rapporto tra tecnologia e democrazia all’aumento delle diseguaglianze. Tutti possono leggersi le relazioni e farsi un’idea: nessuna abiura, casomai è stata la rivincita dei nerd. C’era voglia di ripartire dalla profondità del pensiero e dell’analisi».
Cosa c’è, in quelle relazioni, per chi non ha voglia di leggere?
«C’è tanta voglia di trovare strade nuove, di interpretare il cambiamento, di trovare le parole che abbiamo perso, quelle che danno significato all’azione, che danno una prospettiva. Non è un problema solo del Pd, ma di tutti i partiti riformisti nel mondo. C’è stato un momento in cui gli eredi dei grandi riformatori del Novecento sono diventati i tecnocrati del secolo successivo. Perdere le parole vuol dire non saper aspettare che i risultati arrivino piano piano. Il cambiamento non è un tweet: il cambiamento è fatica. Significa lasciare le cose che ci hanno reso felici, ma che sono diventate una zavorra. Per questo serve la politica, l’azione collettiva. Perché senza quei punti di riferimento, la fatica e la rinuncia sembrano inutili».
Renzi rappresenta ancora il cambiamento?
«Secondo me Renzi ha interpretato molto bene quella sfida: c’era una sinistra che doveva cambiare e un Paese che doveva cambiare. Il problema è che ci siamo fermati in mezzo al guado, tutti. E non sempre abbiamo trovato le risposte giuste di fronte a cambiamenti così irruenti. Oggi non risolveremo questo problema se ci divideremo tra chi accusa Renzi e chi accusa le minoranze che hanno ostacolato Renzi. Diciamo sempre che i populisti sbagliano perché di fronte al problema cercano un colpevole, non la soluzione. Noi stiamo facendo lo stesso errore».
E la soluzione?
«Andare oltre. Torno alla frase del mio grosso grasso matrimonio greco: io non voglio che il mio passato, sia esso quello remoto della socialdemocrazia novecentesca o quello recente del governo Renzi, mi definisca. Ma voglio che entrambi facciano parte del mio futuro».
Anche il sindacato? C’è chi, ascoltando la sua relazione, l’ha accusata di revisionismo…
«Io voglio rinvigorire i corpi intermedi, e lo rivendico. Oggi viviamo un’epoca in cui la partecipazione è incendiaria, ma è minima nell’incidere sulle scelte di chi governa. Serve pensiero collettivo e azione collettiva. Noi per primi, come Partito Democratico, siamo rimasti nel Novecento. Non abbiamo saputo adeguare i nostri strumenti organizzativi e non abbiamo avuto la forza di aiutare gli altri a cambiare».
Quindi da domani si ritorna alla cara e vecchia concertazione?
«No, assolutamente. Abbiamo fatto bene a rottamare la liturgia della concertazione, l’ho detto nella mia relazione. Non mi interessa il sindacato che si sostituisce alla politica. Ma dovevamo trovare un dialogo sociale nuovo e ci siamo riusciti solo in parte. E abbiamo fatto male a fare tagli lineari ai patronati solo per dire che i sindacati erano vecchi. Dovevamo distinguere, aiutandoli a costruire forme nuove per fare il loro mestiere».
Parliamo di presente: le piace la manovra del governo Sánchez? Qualcuno l’ha definita la legge di bilancio più a sinistra di sempre…
«Mi piace. È una manovra che ha un intento redistributivo, che cerca di recuperare potere d’acquisto per gli ultimi, che riduce la distanza tra uomini e donne. E poi c’è il salario minimo, che era parte integrante del nostro programma. Però…»
Però?
«È una manovra di breve periodo, tattica. Intendiamoci: nella Spagna che si sta risollevando, dopo anni durissimi, è un segnale utile. Poi serve altro per una crescita inclusiva e sostenibile. Per me il dibatto novecentesco tra stato o mercato, su chi si deve farsi carico delle disuguaglianze è obsoleto. Mi interessa come dare queste risposte, qui e ora, indipendentemente dagli strumenti. Ad esempio, mi interessa il diritto soggettivo alla formazione dalla culla alla tomba. Mi interessa come si dà sicurezza alle periferie, ai territori».
Sono cose che avete provato a fare, al governo…
«Sì certo, ma su alcune potevamo fare di più».
Come mai?
«Troppi trasferimenti ad esempio, e troppo poco lavoro sulla macchina pubblica, sui servizi da erogare. Abbiamo disegnato bene tante cose, ma nessuno le ha viste. Le politiche attive del lavoro, ad esempio. E poi su altri temi, altrettanto fondamentali, siamo stati troppo timidi, troppo poco radicali».
A proposito di radicalità. Lei e il segretario Martina, in una recente lettera a “La Repubblica” avete parlato di Quinto Stato. Qualcuno avrà tirato fuori la bandiera rossa, per l’occasione…
«Intanto il copyright è di Maurizio Ferrera, il maggior studioso italiano di stato sociale e politiche pubbliche, non proprio un nostalgico del bolscevismo. Neppure io lo sono del resto: quando parlo di Quinto Stato non parlo di lotta di classe, ma della trasformazione di uno sciame in massa».
Uno sciame?
«C’è una moltitudine di soggetti priva di cittadinanza, di riconoscimento sociale, che si sente straniera a casa propria e non ha un progetto politico in cui riconoscersi. Come il socialismo, che in fondo era l’ideologia di chi aveva fame, del Quarto Stato. Questo bisogno di riconoscimento sociale oggi trova sbocchi che sono solo distruttivi. La mia ossessione è fare qualcosa “per tutti”, soprattutto per gli ultimi. Altrimenti non ha senso nulla».
Gli ultimi chi sono? Gli stranieri cui viene tolto il pasto in mensa o gli italiani che protestano perché si sentono prevaricati dagli stranieri?
«Sull’immigrazione serve smetterla di fare gli struzzi, di nascondere la testa sotto la sabbia. Esiste chi migra per ragioni economiche, non solo chi scappa dalle guerre. E pure questa è un’immigrazione che va gestita. Tanto per cominciare: chi vuole venire in Italia per ragioni economiche non devi prendere un barcone, ma andare in ambasciata. Ci deve essere un decreto flussi che stabilisca quanti ne possono entrare, ci deve essere formazione, ci deve essere un percorso di inserimento sociale fatto di diritti e di doveri, che devono essere spiegati e fatti propri da chi entra. Noi dobbiamo gestire l’integrazione, non l’emergenza. E solo così si esce dalla logica dell’emergenza. Perché in questo modo facciamo dei migranti economici un pezzo della nostra comunità».
Comunità che sembra molto restia ad accogliere, oggi come oggi…
«L’integrazione si fa in due, e noi dobbiamo lavorare tanto sugli italiani, soprattutto chi si sente più minacciato. Dobbiamo aiutarli se subiscono contraccolpi dall’immigrazione. Dobbiamo integrare chi arriva e chi già c’è in una comunità nuova. Secondo me sono le comunità locali che dovrebbero dirci di chi hanno bisogno, ad esempio, evitando che questa decisione venga presa a Roma. Ma non dobbiamo essere ambigui, mai. Dobbiamo dire forte e chiaro che chi nasce e studia in Italia è italiano. E che la Legge Bossi-Fini va superata».
C’è chi dice che mancano i soldi, per fare vera integrazione…
«Non è del tutto vero. Ma è vero che c’è un tema enorme relativo alla tassazione in Italia e in Europa. E non è un problema che risolvi con gli strumenti attuali: non ci può essere una base imponibile immateriale, che sparisce appena provi ad aggredirla».
Parla delle multinazionali?
«Certo. E non posso farmi fregare con qualche investimento in aeree dismesse o con una negoziazione con l’erario che assomiglia a un piatto di lenticchie. Non è pensabile che in proporzione paghi meno tasse Bill Gates di chi assembla computer per lui».
La Francia ha proposto una tassa europea alle grandi multinazionali tecnologiche, ma c’è stato il veto di quattro Paesi e non se ne farà nulla…
«Allora io Italia accelero con forzature unilaterali o metto un’accisa sui dati, nel frattempo. In attesa dell’Europa anche gli Stati dovrebbero attivarsi. Il problema è troppo serio. Ne va della difesa del nostro modello sociale».
Ieri Angela Merkel ha annunciato la sua intenzione a non ricandidarsi alla presidenza della Cdu, dopo le batoste in Baviera e Assia. L’Europa ci guadagna o ci perde?
«Non possiamo saperlo. Però ci sono un mare di problemi che senza un’Europa vera, politica e sociale, non si risolveranno mai. Noi dobbiamo lasciarci alle spalle il metodo intergovernativo: le cose si fanno con chi ci sta. Detto questo, c’è uno spunto importante che ci ha dato Cacciari, proprio al Forum di Milano: tra i fondatori dell’Europa unita c’erano Schumann, De Gasperi e Adenauer, tre personalità che avevano due cose in comune: parlavano tedesco ed erano democristiani. Questo è per dire, da italiano e da socialista europeo, che senza la cultura cristiano-democratica e senza il pensiero politico tedesco non se ne fa nulla, dell’Europa unita».