qdR magazine

La speranza è un rischio da correre

Tommaso Nannicini
Democrazia/#pd

Da economista, vorrei parlare di un tema di mia stretta competenza: il tema della rottamazione. La rottamazione è entrata nella scienza economica almeno da quando l’economista austriaco Joseph Schumpeter ci ha parlato di “distruzione creatrice”. Per un economista, infatti, è ovvio che se vuoi creare progresso economico e civile, se vuoi affermare un nuovo prodotto o una nuova idea – per quanto antipatico possa sembrare – devi mettere fuori mercato quello che c’era prima.

Il punto è capire perché e come farlo.

Se guardiamo alla politica italiana, il perché è presto detto. Perché la cronaca degli ultimi anni – e le statistiche economiche degli ultimi decenni – ci consegnano il fallimento di un’intera classe dirigente, la classe dirigente della Seconda Repubblica: il fallimento di due decenni di scelte non fatte, di occasioni mancate. Tanto che tutti i problemi economici e sociali che erano già evidenti nel passaggio della Prima alla Seconda Repubblica sono ancora davanti a noi, come una zavorra che rischia di portarci a fondo.

Non è un problema personale (in quella classe dirigente ci sono persone degnissime). Non è neanche un problema anagrafico (ci sono molti giovani che avanzano proposte che stanno dentro quella stessa visione fallimentare, mentre alcuni “meno giovani” sono portatori sani di cambiamento). È un problema politico. La politica ha fallito perché, a destra, le promesse di cambiamento sono rimaste seppellite sotto gli interessi personali di un leader. E, a sinistra, le promesse di cambiamento sono rimaste seppellite sotto gli interessi costituiti legati all’esistente. Si è scelto – politicamente e legittimamente – di provare a cambiare senza scontentare nessuno. E questa scelta ha fallito.

Per lasciarci alle spalle questo fallimento, non possiamo far finta di niente. Non possiamo proporre le stesse cose con le stesse persone, pensando che gli italiani ci prendano sul serio. O meglio: possiamo anche provarci, ma a costo di perdere credibilità come forza del cambiamento.

Possiamo anche proporre ammortizzatori sociali per i giovani lavoratori flessibili (come abbiamo fatto ininterrottamente negli ultimi 15 anni). Ma qualcuno ci chiederà perché, quando ci sono stati due spiccioli da spendere, il governo dell’Unione di centrosinistra ha deciso di usarli per abolire lo scalone previdenziale, cioè per tutelare generazioni e categorie già ampiamente tutelate dal nostro sistema di welfare, anziché creare un sistema universale di ammortizzatori sociali.

Possiamo anche proporre di rilanciare l’economia con più politiche industriali. Ma qualcuno ci chiederà quale credibilità abbia chi – dal governo centrale e da quelli regionali – ha gestito le politiche industriali in chiave puramente difensiva, aiutando solo i soggetti inseriti in una rete arcaica di relazioni industriali, costruendo barricate contro gli investimenti dall’estero. E qualcuno ci chiederà che credibilità abbia chi ha perpetrato la legge di Murphy della sinistra italiana, per cui le idee di Pietro Ichino andranno bene per la sinistra che verrà tra 20 anni, ma non vanno mai bene per la sinistra che c’è adesso.

Magari possiamo provare a cavarcela dicendo che non è stata colpa nostra, che è colpa del liberismo selvaggio. Ma qualcuno ci chiederà che cosa sia mai questo liberismo selvaggio, nell’Italia delle mille regolamentazioni e delle mille corporazioni. Tanto che forse ci converrebbe mettere degli annunci a pagamento sui maggiori quotidiani nazionali col testo: “AAA cercasi liberismo selvaggio. Chi dovesse trovarlo è pregato di portarlo a Stefano Fassina”.

Perché serva una sana distruzione creatrice nella politica italiana è abbastanza chiaro. Il secondo tema, allora, riguarda come farla. Che cosa serva all’Italia di oggi. Secondo qualcuno, abbiamo bisogno di più eguaglianza, per chiedere di più a chi ha di più. Secondo altri, servono più merito e più concorrenza, per rimettere in moto le opportunità. In verità, servono entrambe le cose, ma in settori diversi e rispetto a politiche diverse. E nel programma di Matteo Renzi ci sono entrambe le cose proprio in dosi diverse. Per capire dove serva l’una e dove serva l’altra, la cartina di tornasole che dobbiamo usare è il concetto di equità. La politica deve indicare nuove priorità, facendo in modo che risorse scarse raggiungano ciascuno secondo il proprio merito o il proprio bisogno.

Chiudo con un esempio. Sappiamo tutti che dietro il debito pubblico e l’alta spesa per interessi che strozzano la nostra economia si nascondono anche le storture della vecchia spesa pensionistica. La Seconda Repubblica ha riportato in equilibrio i conti del sistema previdenziale, ma scaricandone i costi solo sulle generazioni giovani e future. Perché non quantificare, allora, le storture del passato che ancora sono tra noi? Obbligando, per esempio, gli enti previdenziali a comunicare a ogni titolare di pensione un semplice calcolo: il rendimento implicito dei contributi versati lungo la vita lavorativa, sulla base dell’ammontare della pensione e della speranza di vita al momento di prenderla. In alcuni casi, come quello dei baby pensionati col vecchio sistema retributivo, questo rendimento è enorme. Perché, allora, non chiedere di più a chi ha avuto di più? Istituendo – sopra una certa soglia di pensione e sopra un certo livello di rendimento – un piccolo “contributo di equità tra generazioni”, con lo scopo di finanziare immediatamente gli ammortizzatori sociali dei giovani lavoratori flessibili. Un contributo di equità, non di solidarietà: perché i giovani non chiedono solidarietà a qualcuno che deve elargirla dall’alto della sua generosità, ma chiedono semplicemente più equità.

C’è già un’Italia che ha deciso di non sedersi aspettando la politica. C’è già un’Italia che ha scelto di rischiare e di mettersi in gioco. Questa Italia non ci chiede più politiche industriali, non ci chiede contributi di solidarietà. Ci chiede più equità. Ci chiede che il proprio rischio sia premiato se le cose andranno bene, e che le sia dato un aiuto per ripartire se le cose andranno male.

Qualcuno ha scritto che la speranza è un rischio da correre. Se ce lo ricorderemo e lo faremo percepire agli italiani, se sapremo trasmettere l’idea che la speranza è un rischio che vale la pena correre: allora, avrà ragione chi ha scelto il tema di questa Leopolda. Sì, il bello deve ancora venire.

Vai al contenuto