Europa

L’Agenda compatibile

Tommaso Nannicini
Democrazia/#politica

Secondo Matteo Orfini, le idee dei sostenitori della cosiddetta Agenda Monti all’interno del Pd sono «interessanti ma andavano di moda vent’anni fa». Critica che colpisce per la visione che sottintende: le idee politiche come mode. Proposte liberaleggianti vanno bene quando i mercati internazionali tirano a gonfie vele e ai premier di sinistra è permesso esibirle nei convegni internazionali (salvo scordarsele ai tavoli della concertazione).
Vanno male, anzi malissimo, in tempi di crisi quando le pulsioni antimercato e la promessa della mano salvifica dello stato sono comode scorciatoie per una sinistra a corto di idee (a proposito di mode che non muoiono mai). Questa discussione non ci porterà da nessuna parte. Non esistono mode o ricette valide a ogni latitudine. Ogni progetto di cambiamento va calato nel contesto in cui deve vivere. È questa la fatica e la bellezza del riformismo. Ai riformisti non interessa se una soluzione l’ha detta anche la Thatcher negli anni ’80, Blair nei ’90 o Alfredo Reichlin l’altro ieri: l’unica cosa che conta è se quella soluzione serve a risolvere i problemi del paese, oggi. Il dibattito sull’Agenda Monti che una parte dei dirigenti democratici e – a giudicare dai sondaggi – molti elettori vorrebbero vedere al centro della proposta che il Pd presenterà al paese nel 2013 sta tutto qui.
L’Agenda Monti non è né la mera riproposizione di un Monti bis (che difficilmente potrebbe portare a termine il suo lavoro con una maggioranza come l’attuale), né la lista delle riforme realizzate dal governo (che hanno chiari limiti per colpa dei vincoli politici e temporali in cui ha operato). L’Agenda Monti è innanzitutto uno spartiacque, che ha segnato il fallimento non solo del governo Berlusconi ma di tutta la Seconda repubblica, caratterizzata da due decenni di scelte non fatte. E di fronte a uno spartiacque, i partiti hanno due opzioni: porsi in continuità o in discontinuità con quella prospettiva.
La vera rottura del montismo risiede nello stile di governo, che si è ispirato a un linguaggio di verità. Anche se a tratti ha peccato di toni professorali o di un eccesso di enfasi sui sacrifici, il governo ha smesso di trattare gli italiani come bambini viziati cui regalare un capro espiatorio dietro l’altro (gli immigrati, i cinesi e la globalizzazione, l’euro e i tedeschi, il liberismo selvaggio).
I nostri problemi siamo stati bravi nel crearceli da soli con vent’anni di produttività stagnante e mancati investimenti in capitale umano. Dopo Monti, sarà difficile usare i miti autoconsolatori (leggi: le balle) che hanno permesso alla Seconda repubblica di non aggredire i nodi strutturali del nostro modello di sviluppo. Ma quali riforme dovrebbero sostanziare l’Agenda Monti dopo Monti? Mi limito a qualche esempio (per proposte più dettagliate si veda: www.agendamonti.eu).
Primo: la concertazione come metodo per discutere la realizzazione di un percorso di riforma chiaramente indicato dal governo in un libro bianco, non per sottostare ai veti incrociati di chi ha in mente un altro percorso. Secondo: un’Europa politica più forte, dove la Germania non ha paura di cedere qualcosa sul fronte inflazione e svalutazione dell’euro e le nazioni periferiche non hanno paura di cedere sovranità in tema di rigore e riforme. Terzo: riequilibrio del carico fiscale da chi produce ricchezza verso chi la detiene, sapendo che la patrimoniale c’è già, si chiama Imu e va mantenuta. Adesso, serve la seconda metà di questa strategia, destinando annualmente ogni euro derivante dalla lotta all’evasione e dai risparmi d’efficienza nella pubblica amministrazione alla riduzione del fisco su imprese e lavoratori, impegnandosi a non usarlo per aumenti di spesa di nessun tipo.
Quarto: non tornare indietro sulla previdenza, perché il governo Monti ha giustamente portato a termine una transizione troppo lunga che ha risparmiato intere generazione dai costi d’aggiustamento. Adesso, serve migliorare il welfare con ammortizzatori sociali universali e nuovi servizi per infanzia e non autosufficienza, chiamando a compartecipare alle spese chi può farcela da solo e concentrando le risorse laddove si intravede un vero bisogno con strumenti di universalismo selettivo.
Quinto: incentivare la mobilità del lavoro mettendo in campo nuove tutele e servizi, senza nessuna marcia indietro sull’articolo 18 (ovvero, dura opposizione di merito e non solo di metodo al referendum contro la riforma Fornero). Sesto: agenda digitale per modernizzare la nostra burocrazia e aiutare a crescere imprese innovative. Settimo: realizzare un programma di lungo periodo che crei un sistema di valutazione rigoroso e condiviso, per poi premiare – anche attraverso differenziazioni salariali – il merito e l’impegno nella scuola, nell’università e nella pubblica amministrazione.
L’Agenda Monti declinata lungo queste linee è compatibile con il concetto classico di centrosinistra? Sì, perché è di centrosinistra aumentare la mobilità sociale in una società bloccata, in cui le condizioni di partenza hanno un peso enorme sulle condizioni di arrivo. È di centrosinistra liberare le risorse bloccate da spese improduttive e non selettive: merito, impegno e bisogno, nell’Italia di oggi, devono combattere gli stessi avversari, che si nascondono dietro incrostazioni corporative e familistiche. Si tratta di temi niente affatto metafisici.
Se il Pd saprà mettere questa agenda al centro della propria proposta, come per magia, il ritorno della politica smetterà di togliere il sonno agli italiani e il fantasma del Monti bis smetterà di toglierlo ai politici che ambiscono a governare in prima persona. Il governo Monti è stato un salvagente offerto al paese dopo il naufragio della Seconda repubblica. La politica, invece di prendersela con chi ha rassicurato i mercati dicendo che questo salvagente continuerà a esserci, faccia di tutto per risparmiare a se stessa e al paese il secondo naufragio consecutivo.