Anche se dopo Monti non ci fosse un Monti Bis, l’agenda che ha portato all’ordine del giorno è una rottura politica e programmatica con cui i partiti che si dovessero candidare a governare il Paese non potrebbero evitare di fare i conti. La stessa espressione “agenda” parla chiaro: il progetto non è ancora compiuto.
Ci sono due tipi di dialoghi tra sordi. I dialoghi in cui ognuno usa parole che gli altri non conoscono e i dialoghi, di gran lunga più insidiosi, in cui tutti usano le stesse parole dandogli un significato diverso. Il dibattito sulla cosiddetta “agenda Monti” assomiglia molto al secondo tipo.
Per alcuni, questa espressione identifica l’attuale governo. Di conseguenza, il modo migliore per darle compimento è arrivare a un Monti bis o a un governo simile, sia per il personale che lo componga sia per la maggioranza che lo sostenga. Magari limando un po’ le estreme attraverso due scissioni nel Pd e nel Pdl, in modo da ridimensionare il ruolo di questi due partiti e valorizzare quello di un nuovo centro. Si tratta di un’ipotesi neocentrista più che legittima, in linea con la prospettiva che Casini sogna da anni. In questo caso, però, sarebbe meglio parlare di “governo simil-Monti”.
Per altri, tra cui un osservatore attento come Luca Ricolfi sulla Stampa,l’espressione coincide invece con il gradimento di Monti, che si fonderebbe su un fatto “stilistico” piuttosto che programmatico. Fattori pre-politici spiegherebbero il successo del governo presso gli italiani: serietà, competenza, sobrietà, senso delle istituzioni. Il corollario di questa lettura è che nessuna prospettiva politica o programmatica credibile può essere costruita solo su queste basi. In questo caso sarebbe meglio parlare di “stile Monti”. Si tratta di un giudizio che coglie parte del fenomeno, ma finisce per lasciare in ombra molto di più.
Esiste una terza accezione, infatti, dell’espressione “agenda Monti”,intesa come una rottura politica e programmatica con cui i partiti che si candidano a governare il paese dopo Monti non possono evitare di fare i conti, ponendosi in continuità o in discontinuità con tale prospettiva. In questo caso l’espressione “agenda” è pregnante, perché rimanda a un progetto incompiuto per via dei vincoli politici e temporali che hanno arginato l’azione del governo. Un progetto di cambiamento in cerca di un autore (politico).
Uno dei lasciti più importanti del cambio di passo rappresentato da Monti è tutto politico. E ha a che fare con una visione di governo improntata a un linguaggio di verità. Anche se a tratti ha peccato di toni professorali o di un eccesso di enfasi sui sacrifici, il governo ha smesso di trattare gli italiani come bambini viziati cui regalare un capro espiatorio dietro l’altro (gli immigrati, i cinesi e la globalizzazione, l’euro e i tedeschi, il liberismo selvaggio). La verità, al contrario, è che i nostri problemi siamo stati bravi nel crearceli da soli con vent’anni di produttività stagnante e mancati investimenti in capitale umano. Dopo Monti, sarà difficile usare i miti auto-consolatori (leggi: le balle) che hanno permesso alla Seconda Repubblica di non aggredire i nodi strutturali del nostro modello di sviluppo.
Basta guardare questo grafico (che rielabora un tweet di @t_manfredi). In entrambi i riquadri – quello di sinistra per l’Italia e quello di destra per la Germania – la linea blu cattura la compensazione per il fattore lavoro e quella rossa la sua produttività. Nell’arco temporale della Seconda Repubblica, dal 1994 al 2011, le due linee sono andate a braccetto in Germania ma non in Italia, dove la produttività ha mostrato un elettroencefalogramma piatto. E non è un caso che nello stesso periodo il costo del lavoro per unità di prodotto sia cresciuto del 40% in Italia e del 5% in Germania. Tutta colpa dei tedeschi? No, colpa del nostro elettroencefalogramma piatto sulla produttività. È questo il vero spread che dobbiamo combattere.
E per aggredirlo occorre porsi in continuità o in discontinuità con l’agenda Monti? La prima che ho detto. Si pensi al nostro fisco, che necessita da sempre di un riequilibrio che sposti il carico da chi produce ricchezza verso chi la detiene. Per farlo, si deve sapere che la patrimoniale c’è già, si chiama Imu e va mantenuta. Adesso, serve la seconda metà di questa strategia, destinando annualmente ogni euro derivante dalla lotta all’evasione e dai risparmi d’efficienza nella pubblica amministrazione alla riduzione del fisco su imprese e lavoratori, impegnandosi a non usarlo per aumenti di spesa di nessun altro genere. Parlare di abolizione dell’Imu (Berlusconi) o di un’altra patrimoniale come pietra angolare di una nuova politica economica (Bersani) significa non porsi in sintonia con l’agenda Monti.
Sulla previdenza, tornare indietro significherebbe negare il furto intergenerazionale che abbiamo alle spalle. Il governo Monti ha portato a termine una transizione troppo lunga, che ha risparmiato intere generazione dai costi d’aggiustamento. Adesso, serve migliorare il welfare con ammortizzatori sociali universali e nuovi servizi per infanzia e non autosufficienza, chiamando a compartecipare alle spese chi può farcela da solo e concentrando le risorse laddove si intravede un vero bisogno. Proporre passi indietro sulle pensioni (l’ultima moda bipartisan che serpeggia tra i nostri politici) significa non porsi in sintonia con l’agenda Monti.
Sul lavoro, al di là dei limiti della riforma Fornero, a partire dall’eccesso di spazio discrezionale per i giudici, è passata l’idea che la sfida della sicurezza si gioca nel mercato e non con la difesa a oltranza di posti che è impossibile tutelare per legge. La produttività ha bisogno di una maggiore mobilità del lavoro da aziende decotte verso aziende più produttive. E la mobilità è sostenibile solo se ai lavoratori sono offerti servizi di riallocazione e riqualificazione (secondo le migliori pratiche internazionali) e ammortizzatori sociali degni di questo nome. È questa la parte della riforma da completare, ma senza tornare indietro. L’unico modo per porsi in sintonia con l’agenda Monti è dire un “no” convinto al referendum promosso da Di Pietro, Vendola e compagni(a). Un “no” di merito, non di metodo.
Insomma: chi cerca di usare Monti come un sostituto virtuale di una leadership che non riesce a darsi, o chi tende a ridurlo a un fatto stilistico, è avvertito. L’agenda Monti è una cartina di tornasole per testare le proposte della politica. Gli italiani hanno imparato a usarla. E difficilmente se ne scorderanno.
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