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L’alternativa che non c’è

Tommaso Nannicini
Democrazia/#pd

Lo spettacolo è deprimente. Una maggioranza che naviga nel mare in tempesta senza bussola e con un equipaggio che sembra soffrire il mal di mare. Proposte che sono le stesse da decenni, salvo promesse di punti programmatici e campagne d’ascolto last minute (come se chi le propone fosse un extraterrestre che non è mai stato al governo e non ha mai avuto modo di ascoltare il paese). Alleanze politiche in preda all’umore (degli altri): si corteggia Casini, ma di fronte ai suoi rifiuti ci si ripara – un po’ restii, un po’ sollevati – nel caldo abbraccio degli alleati estremisti. E, soprattutto, una leadership che per visione e cultura politica ha fatto il suo tempo: con meriti e fallimenti da consegnare alla storia, ma ormai incapace di sintonizzarsi sulle sfide del domani. Nonostante tutto ciò, il cambiamento è bloccato. Perché non esiste un’alternativa. Perché all’opposizione mancano una leadership credibile e una visione convincente. Perché anch’essa vivacchia come se fosse impaurita di scatenare forze del cambiamento che, al pari degli stregoni di marxiana memoria, potrebbe essere incapace di governare. Di che cosa stiamo parlando? Del triste spettacolo della politica italiana ai tempi del declino del berlusconismo? Senz’altro. Ma, purtroppo, non solo. Perché quello stesso spettacolo, con le debite proporzioni, ce lo fornisce il dibattito interno al Pd.

La linea della maggioranza uscita dall’ultimo congresso mostra la corda. Le proposte di alleanza politica cambiano al ritmo delle mode adolescenziali: Nuovo Ulivo che, per carità, non sarà come la vecchia Unione, salvo che sarebbe un peccato dimenticarsi del compagno Diliberto (cosa che per fortuna hanno fatto gli elettori italiani); comitato di liberazione nazionale di franceschiniana memoria (di cui per fortuna si ricordano solo su YouTube); alleanza al centro con Casini premier (lo so, questa è un’invenzione dei giornalisti, forse); e via così. Le proposte programmatiche, dal canto loro, occhieggiano alle rassicuranti certezze socialdemocratiche: la crisi del capitalismo dovrebbe farci vedere i guasti sociali del liberismo selvaggio (in quale paese?) e che per uscirne servono più diritti e più intervento pubblico (chi paga?). Poi c’è la questione della leadership. Per carità, Bersani è stato un ottimo ministro ed è un dirigente politico d’indubbie capacità. Ma non ha il passo del leader, anche con le maniche di camicia arrotolate. Perlomeno non ce l’ha nell’Italia di oggi. Non è una questione estetica o di mera comunicazione. È un deficit di visione e cultura politica. Le querce non fanno i limoni.

Se Atene piange, Sparta non ride. Il Veltroni del Lingotto (scegliete voi il numero, io ho perso il conto) fa venire la pelle d’oca dall’emozione a noi riformisti. Eppure, per doloroso che sia, anche il suo tempo è passato. Non perché ha perso le elezioni (quelle le hanno perse svariate volte anche Mitterand e González prima di guidare i loro paesi). Ma perché in quella battaglia politica (per cambiare prima il partito e poi il paese) proprio Veltroni non ha creduto fino in fondo, quando ha deciso di farsi incoronare leader con una maggioranza bulgara fatta di liste arcobaleno nel 2007 e quando ha deciso di non lanciare una sfida aperta e dall’esito incerto nel 2009. In compenso, leadership alternative non se ne vedono. Anche perché non si sono creati gli strumenti politici capaci di farle emergere. Movimento Democratico è tanto lontano dal suo nome quanto dalla visione che ne danno i giornali. Non è un “movimento”, perché si è deciso di non farlo vivere giorno per giorno (su internet e sul territorio) come un movimento aperto e inclusivo, capace di attirare energie fresche alla politica e al Pd. E non è una corrente, perché non ha strutture organizzative e sedi di discussione interna degne di questo nome. Eppure, di entrambe le cose (ma ci saremmo accontentati di una delle due) c’era un gran bisogno.

Che fare, allora? C’è solo una speranza: rimettere in gioco la palla e affidarsi alla provvidenza (leggi: alla voglia di cambiamento e alla lungimiranza degli elettori del Pd). Ne hanno già scritto bene Stefano Ceccanti e Marco Campione: servono le primarie del Pd per scegliere il leader del Pd. Questa è una proposta che, di fronte al logoramento attuale, dovrebbe accontentare tutti. Dovrebbe accontentare quanti comprendono che solo da una leadership forte e da un mandato chiaro può nascere un progetto politico credibile. Ma dovrebbe accontentare anche i cultori di un partito forte e radicato “di stampo europeo”. Dall’ultimo congresso, infatti, la situazione politica ed economica è cambiata in maniera tumultuosa; le alleanze strategiche allora ipotizzate non sono decollate; la geografia interna si è rimescolata, con il leader della minoranza che è entrato in maggioranza: di fronte a tutto ciò, quale partito degno di questo nome, dai fiordi norvegesi agli altipiani spagnoli, non si affretterebbe a convocare un congresso? Le primarie, infine, dovrebbero accontentare sia la maggioranza (perché magari l’analisi di cui sopra è ingenerosa e il consenso interno rafforzerà l’attuale leadership del Pd), sia la minoranza (che avrebbe l’occasione di rigiocare le sue carte). E le primarie (del Pd, non di coalizione) dovrebbe chiederle anche chi ha legittime ambizioni di leadership come Matteo Renzi. Gli unici che non dovrebbero chiedere le primarie sono quelli che hanno paura di mettere in subbuglio gli equilibri esistenti in vista delle prossime candidature.

Insomma: chiedere che siano convocate immediatamente elezioni primarie per la scelta del leader del Pd non è un’azione di disturbo. È, al contrario, un atto d’amore verso la “ditta”. È l’ostinata e cocciuta speranza che nel Pd e dal Pd possa ancora nascere il cambiamento di cui il paese ha bisogno. Adesso, prima che sia troppo tardi. Prima che gli elettori, stanchi di aspettare Godot, si convincano che questa alternativa è meglio andare a cercarla da altre parti.

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