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Le prime misure contro la povertà

Tommaso Nannicini
Economia/#povertà

I dati Istat sulla povertà in Italia confermano un aspetto purtroppo noto. La povertà, assoluta e relativa, è in aumento. L’incremento segnalato dalla rilevazione di ieri si concentra quasi interamente sulle famiglie di stranieri, ma in ogni caso le rilevazioni precedenti indicavano già che, durante gli anni della crisi, la povertà ha rotto gli argini: non è più circoscritta a categorie o aree geografiche tradizionalmente svantaggiate. È diventata più trasversale. Il governo lo sa e sta affrontando il problema.

Lo affronta innanzitutto con un miliardo di euro stanziati nella legge di stabilità. Un miliardo di risorse strutturali che non è un pannicello caldo, ma solo l’inizio di un percorso che continuerà con maggiori risorse e interventi. Chi oggi sale in cattedra dicendo che è troppo poco dovrebbe spiegare come mai prima si è fatto poco o niente, lasciando all’Italia la maglia nera insieme alla Grecia dei paesi europei privi di una misura strutturale di lotta alla povertà. Se solo i politici che hanno governato il paese negli ultimi venti anni avessero fatto le misure che oggi valutano come “limitate”, ora staremmo commentando un quadro sociale sicuramente migliore.

Se la situazione non è ancora più drammatica lo si deve a chi, in tutti questi anni, mentre la politica stava a guardare o a parlare in qualche convegno, è rimasto in trincea con l’elmetto in testa a combattere la povertà. Pensiamo alle moltissime associazioni del terzo settore. Alla Caritas, ai comuni e a tutta la variegata moltitudine di realtà che hanno formato un’alleanza contro la povertà proprio per sollecitare uno scatto di reni da parte del mondo politico.

C’è un punto importante nella filosofia di fondo che il governo sta seguendo su questo fronte: non si tratta di dare qualche spicciolo agli sfortunati garantendo loro un tenore di vita leggermente più decoroso, ma che, di fatto, nulla cambia. La nostra idea è un trasferimento monetario accoppiato a servizi attivi, a un inserimento sociale e lavorativo che premi comportamenti virtuosi. Uscire dalla povertà richiede risorse materiali, ma è anche un processo di attivazione sociale. Non basta estendere le risorse a chi ne ha maggiore necessità, ma uscire da una logica assistenzialistica che rischia di perpetuare situazioni di disagio e dipendenza. Mandare i figli a scuola o dal pediatra, cercare un lavoro se sei in grado di farlo: sono tutti comportamenti che vanno accompagnati per chi riceve trasferimenti monetari e servizi. La lotta al disagio ha bisogno di trampolini verso nuove opportunità, non di mance senza condizionalità.

È un principio insito anche nella filosofia alla radice di un altro piano di cui poco si è parlato: il fondo di contrasto alla povertà educativa. La povertà educativa è la più pericolosa di tutte le disuguaglianze, perché si perpetua nel tempo creando una disparità nei punti di partenza che poi origina nuove povertà, trasmettendole di generazione in generazione. Per combatterla sono stati stanziati altri 400 milioni per un piano triennale in collaborazione con le fondazioni bancarie e il Forum del Terzo Settore. Questo fondo – che nasce col presupposto di lavorare a fianco delle associazioni del terzo settore, coloro che da anni operano nei territori e ben conoscono dove la povertà (assoluta ed educativa) si annida – intende premiare e generare meccanismi virtuosi, sottoponendo gli interventi a una valutazione rigorosa, per capire che cosa funziona e che cosa no.

Al netto delle altre risorse che potranno essere individuate nelle prossima legge di bilancio per continuare il percorso già avviato, nei prossimi tre anni si spenderanno 3 miliardi e 400 milioni di nuove risorse, dopo anni di zero assoluto. E si rafforzerà una collaborazione attiva con tutti coloro che sono in prima linea nella lotta alla povertà. I dati Istat fotografano un’immagine preoccupante: il governo, checché ne dicano maestrini con le carte poco in regola per fare concioni, non sta a guardare.