Antefatto: in agosto, nel tentativo di ridurre il deficit pubblico e all’interno di un accordo che innalzava il limite alla facoltà del governo federale di emettere debito, il Congresso degli Stati Uniti ha nominato una commissione (subito ribattezzata “super-commissione” con un’enfasi tutta a stelle e strisce) con il compito di trovare un accordo bipartisan per una decisa riduzione del deficit. La super-commissione aveva una scadenza che è stata fragorosamente mancata la scorsa settimana. In soldoni, l’accordo che non c’è stato (il “grande compromesso” auspicato da molti commentatori a partire da Thomas Friedman sul New York Times) avrebbe dovuto basarsi su un aumento delle tasse per i più ricchi, fortemente osteggiato dai repubblicani, e su tagli a settori importanti della spesa pubblica come la sanità, fortemente osteggiati dai democratici. In verità, all’ultimo minuto, i democratici avevano fatto importanti concessioni sul loro fronte, ma i repubblicani (nel pieno delle loro primarie presidenziali) si sono opposti a qualsiasi pacchetto che introducesse nuove tasse. I più malevoli sostengono che il mancato accordo non dispiaccia neanche a Obama, che adesso potrà scagliarsi contro l’incapacità del Congresso repubblicano di affrontare i problemi del paese.
Il fiasco della super-commissione ha due effetti immediati. Uno economico e uno politico. Sul piano economico, la legge istitutiva prevede che adesso scatteranno riduzioni automatiche del deficit attraverso più tasse per tutti (visto che non verranno rinnovate le esenzioni fiscali degli ultimi anni) e tagli draconiani alla spesa pubblica in tutti i comparti, a partire da difesa e sanità. Insomma: i tagli lineari ben noti a noi italiani, frutto di una politica che non sa decidere e condanna il proprio paese a subire i costi di politiche restrittive non selettive che finiscono per affossare le già timide prospettive di ripresa economica. Sul piano politico, invece, lo scontento degli statunitensi verso la classe politica sta raggiungendo livelli di guardia (con Presidente e Congresso ai minimi storici nei sondaggi), animando movimenti di protesta a destra (Tea Party) e a sinistra (Occupy), e soprattutto alimentando una sfiducia diffusa che torna a far vagheggiare la speranza di un candidato indipendente.
Più in generale, il fallimento della super-commissione statunitense è soltanto l’ultimo di una galleria di esempi, su entrambe le sponde dell’Atlantico, di una politica che non sa decidere. Per carità, data la situazione, si tratta di scelte non facili. In un’epoca di aspettative decrescenti, i diritti materiali devono essere rivisti e redistribuiti. E non è facile. Decidere come dividere una torta che cresce non è semplice (perché in tanti pensano di avere diritto alla fetta più grossa), ma mettere a dieta qualcuno perché la torta si sta restringendo è terribilmente più complicato. È qualcosa che tocca riflessi psicologici profondi. Anche da bambini, per quanto potessimo restare male quando un nostro amichetto decideva di condividere il suo giocattolo con altri e non con noi, una tale delusione era niente in confronto alla rabbia che poteva provocare il tentativo di qualcuno di portarci via il nostro giocattolo preferito. Sono proprio le riforme “sottrattive” (per cui la politica deve chiedere ad alcuni settori della società di rinunciare ai legittimi privilegi di cui hanno goduto in passato per far spazio alla tutela di nuovi bisogni) che richiedono una grande capacità di leadership e di visione politica.
Ed è curioso che questo deficit di visione politica, questa incapacità di prendere decisioni difficili, avvenga in un’epoca di crescente personalizzazione della politica. I nostri politici non sono affatto, come vorrebbe far credere in Italia una vulgata conservatrice sugli eccessi del leaderismo decisionista, uomini soli al comando. Sono semplicemente uomini soli, in preda agli umori dell’opinione pubblica, alle pressioni dei gruppi d’interesse e alla volatilità dei sondaggi d’opinione. È il leaderismo indecisionista la vera sindrome dei nostri tempi.
Come fare, allora, per restituire alla politica la sua funzione di guida? Come correggere i meccanismi di selezione della classe dirigente e le storture del nostro dibattito pubblico, per far emergere leader in grado di prendere decisioni difficili, di investire il loro capitale politico nello sforzo di convincere l’opinione pubblica e di costruire il consenso intorno a riforme tanto indigeste nel breve periodo quanto utili nel lungo? Un anno di campagna elettorale per le presidenziali negli Stati Uniti e un anno e mezzo (o sei mesi?) di governo d’emergenza nazionale in Italia, rinvieranno per un po’ la domanda. Ma senza una risposta convincente sul terreno politico, ahinoi, i problemi di fondo torneranno presto a tormentarci.
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