Unità

L’Europa vuol dire fiducia

Tommaso Nannicini
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La partita europea, per il nostro Paese e per il governo, è solo all’inizio. Gli incontri bilaterali con Francia e Germania, e il vertice di Bruxelles che inizia oggi, sono semplice pretattica, all’interno di una sfidapiù ampia. Due temi s’intrecciano tra loro: i margini di flessibilità di bilancio che l’Italia può provare a strappare e il rilancio dell’idea stessa di Europa per affrontare le sfide della globalizzazione.

Il Presidente del consiglio ha fatto bene a non esordire chiedendo di sforare la regola del 3 percento. Non si mette il carro davanti ai buoi: per azionare quella leva, serve una credibilità che va prima conquistata sul campo. Per ora, meglio non scherzare con la sensibilità dei mercati e dei partner europei. In Italia, si ripete spesso che la regola del 3 percento non ha fondamento economico. Ma nessuna regola – fosse anche del 2 o del 4 percento – ce l’ha. Da un punto di vista economico, è meglio tenersi le mani libere e scegliere la risposta ottimale all’andamento dell’economia. Le regole fiscali esistono per motivi politici, non economici. Gli europei le hanno introdotte perché non si fidano l’uno dell’altro, e noi italiani le abbiamo recepite in Costituzione perché non ci fidiamo di noi stessi.

Se vogliamo disporre di più flessibilità nella politica fiscale, dobbiamo recuperare la fiducia perduta. Come? Adottando riforme in grado di favorire la crescita potenziale. Non possiamo cavarcela con piani generici. Servono azioni concrete per semplificare burocrazia e fisco, per aprire i mercati dei servizi, per cambiare gli incentivi di chi lavora nel pubblico impiego, per ridurre i tempi e la volatilità della giustizia, per investire in capitale umano. E serve un piano di dismissioni che abbatta subito il debito pubblico. Solo dopo, si può pensare di sforare il 3 percento.

Si obietterà che, fiducia o non fiducia, le regole fiscali sono scritte nero su bianco in Costituzione e nei trattati europei, e non è possibile aggirarle. Sì e no. Le scappatoie ci sono. Il problema è che imboccarle senza la fiducia degli europei e dei mercati sarebbe insidioso. Non tanto perché incorreremmo in una procedura d’infrazione per disavanzi eccessivi. Al momento, 17 paesi sono sotto procedura e proprio alcuni di questi godono di una maggiore flessibilità. Entrarvi unilateralmente, però, farebbe correre seri rischi a un paese con un debito sopra il 130 percento del Pil. In alternativa, potremmo attivare uno strumento come gli “accordi contrattuali” proposti dalla Commissione nel marzo scorso, chiedendo che un cronoprogramma preciso di riforme sia scambiato con una maggiore flessibilità di bilancio.

Sarebbe sbagliato, tuttavia, se ci limitassimo a giocare in difesa, discutendo sui modi per divincolarci dalle regole europee. Serve una strategia d’attacco. I dati dell’Eurobarometer segnalano una caduta precipitosa della fiducia verso tutte le istituzioni europee, dal Parlamento alla Banca centrale. All’inizio degli anni 90, la differenza tra chi credeva in queste istituzioni e chi no era intorno al 30 percento. Oggi, sono i detrattori a superare gli altri di oltre il 10 percento! Per recuperare questa crisi di fiducia, serve uno scatto. Servono istituzioni più democratiche e allo stesso tempo capaci di prendere decisioni concrete. Serve una Banca centrale che non risponda al solo obiettivo della stabilità dei prezzi.

Soprattutto, serve che gli europei tocchino con mano i benefici che le politiche dell’Unione possono apportare. Per esempio, perché non destiniamo uno dei prossimi vertici di Bruxelles a una seria valutazione degli effetti delle politiche europee, al posto degli interminabili mercanteggiamenti sui fondi da destinare a questo o quel paese? Prima, capiamo – tutti insieme – come sono usate le risorse attuali. Poi, ci preoccuperemo di stanziarne di nuove.

Un’altra priorità dovrebbero essere le politiche per la mobilità, non solo degli studenti, ma anche dei lavoratori. Servono politiche sociali e del lavoro sempre più integrate, programmi pilota d’interscambio di competenze e approcci all’interno del settore pubblico. In due parole: più contaminazione e più mobilità. Solo così si potrà cementare una domanda di “più Europa” dal basso. Il contributo di Ryan Air al progetto europeo non è secondo a quello degli scambi Erasmus.

Insomma, è indispensabile che tutti rispondano con franchezza alla domanda su quale Europa sognano e su che cosa sono pronti a rinunciare per costruirla. Lo so: non si dovrebbe mai concludere con una citazione abusata. Ma John è John e, in questo caso, rende l’idea. Cari paesi europei, non chiedetevi che cosa può fare l’Europa per voi, ma che cosa potete fare voi per l’Europa.