Il governo Renzi è adesso nella pienezza dei suoi poteri e si prepara ad affrontare le priorità indicate dal Presidente del Consiglio. Si fa spesso ironia sulla velocità di Matteo Renzi, sulla sua frenesia. Ma per motivi sbagliati. Si obietta: come si può pensare di fare riforme così importanti in pochi mesi? Non è questo il punto. Le cose da fare si discutono da anni. Adesso, la politica deve scegliere.
Esistono motivi reali, tuttavia, per cui la frenesia degli annunci potrebbe rivelarsi insidiosa. L’Italia è un paese provato da anni di stagnazione economica e disillusioni politiche.
Ci sono due tentazioni da cui un governo che nasce con l’ansia d’imprimere una svolta dovrebbe tenersi alla larga: gli annunci che non si traducono subito in scelte concrete; e le misure tampone che possono sì dare ossigeno all’economia nel breve periodo, ma non scalfiscono (o, peggio, aggravano) i nostri problemi strutturali nel lungo periodo. Abbiamo già perso troppo tempo.
Il premier ha annunciato una riduzione del cuneo fiscale a doppia cifra. Bene. È un obiettivo condivisibile. Come ha scritto Massimo D’Antoni su queste colonne, tuttavia, il nodo delle risorse con cui finanziare l’operazione non è banale. Non sarebbe meglio, allora, partire da un calendario preciso in base al quale le risorse raccolte dalla spending review siano gradualmente destinate alla riduzione delle tasse sul lavoro? Partendo da alcune categorie circoscritte (come i giovani in cerca d’occupazione) per poi allargare la platea a tutti i lavoratori.
Qualsiasi intervento, inoltre, dovrebbe inserirsi in un ridisegno complessivo del fisco. Gli italiani mal sopportano l’attuale pressione fiscale per vari motivi, tra cui la scarsa qualità di alcuni dei servizi che ricevono in cambio. Ma non è solo il livello a indispettirli. Pesa l’incertezza su quante (e quali) tasse pagare. E pesano i tempi e i bizantinismi cui devono sottoporsi per farlo. Su questi temi, le proposte di Renzi vanno nella giusta direzione. Fare arrivare una dichiarazione precompilata direttamente nelle case dei contribuenti sarebbe una rivoluzione.
Sui debiti degli enti locali, il premier ha annunciato l’intenzione di coinvolgere la Cassa Depositi e Prestiti, sulla scia di quanto ha già fatto il governo Letta. Non è ancora chiaro come, ma i piani di cui si parla non sono privi di insidie. I crediti delle impreseverrebbero garantiti dallo Stato per farli acquistare dalle banche, permettendo agli enti debitori di scaglionare il pagamento nel tempo. Ma qualora le banche non fossero soddisfatte dei piani di rientro, la Cassa potrebbe acquistare i crediti, consentendo ai debitori un pagamento ancora più dilazionato. L’idea, sebbene allettante a stretto giro, è rischiosa nel lungo periodo. Se, grazie al gioco delle tre carte della Cassa, la politica locale potesse scaricare i debiti oltre l’orizzonte temporale di due legislature, che incentivo avrebbe a non accumularne di nuovi? Quanto meno, si dovrebbero disegnare incentivi più stringenti.
La storia del nostro patto di stabilità interno è istruttiva. Non c’è dubbio che le regole imposte agli enti locali non fossero particolarmente intelligenti, dato che finivano per penalizzare anche quelli più virtuosi. Ma, per una lunga fase, il loro rispetto è stato comunque disatteso, in mancanza di controlli precisi e sanzioni puntuali. Insomma: c’è senz’altro il problema di disegnare le regole in maniera intelligente. C’è anche il problema, però, di farle rispettare. Stiamo attenti a non lasciare una bomba a orologeria in eredità alle future generazioni.
Il Presidente del Consiglio, infine, ha fatto bene a individuare nella pubblica amministrazione la madre di tutte le riforme. La direzione di marcia, tuttavia, sembra ancora da individuare. Agire sull’inamovibilità di alcuni incarichi dirigenziali può essere utile (anche se negli enti locali già il 45% dei dirigenti è a tempo determinato), ma non basta. Si deve creare un sistema credibile di valutazione, aumentare la mobilità, rivedere i meccanismi d’accesso e le forme del pubblico impiego, dove prevalgono ancora competenze giuridiche e formalistiche, rispetto a quelle statistiche e gestionali. Serve una rivoluzione del nostro apparato pubblico che non potrà prescindere dall’innesto di nuove competenze e dalla creazione di nuovi incentivi per chi vi lavora. Inutile aggiungere che molti istinti, più o meno naturali, alla conservazione andranno messi da parte.
La carne al fuoco, insomma, non manca. La strada che porta a risultati duraturi su tutti questi fronti è piena di nodi da sciogliere. La cartina di tornasole per capire se il governo fa sul serio è che dovrà rassegnarsi all’idea che, per cambiare davvero il nostro paese, non potrà accontentare tutti. La ricreazione è davvero finita.