C’era una volta, con le leggi finanziarie della Prima Repubblica, l’assalto alla diligenza: ognuno presentava emendamenti per favorire il proprio distretto o gruppo d’interesse. Oggi – in tempi di vacche magre e partiti in cerca d’identità – assistiamo a una diversa furia emendatrice. Non si contano le scelte annunciate, patteggiate, modificate, ritirate. Più che una diligenza, la legge di stabilità sembra un ottovolante sempre pronto a cambiare direzione. Al posto di poche scelte strategiche, il governo ha messo sul tavolo un solo elemento intoccabile: mantenere “saldi invariati”.
È un peccato per due motivi. Primo: perché alimenta la visione di chi identifica il governo Monti con un rigorismo fine a se stesso. Non è così: il governo ha saputo realizzare riforme che rispondevano a una visione precisa di quello che serve al paese. Ma adesso che l’allarme spread è rientrato e i partiti sono in ansia per le elezioni, si tirano i remi in barca. Secondo: è un peccato perché senza chiarezza delle scelte non si cambiano le aspettative degli italiani.
La legge di stabilità è partita male in termini comunicativi (perché non si è fatto capire che l’aumento dell’Iva era già stato deciso dal governo precedente e che il taglio delle aliquote Irpef non si limitava a rendere con una mano ciò che si toglieva con l’altra) e di contenuti (con il pasticcio delle franchigie retroattive sulle detrazioni). Poi, è partito l’ottovolante. Nuove priorità, nuove coperture: va tutto bene purché i saldi restino invariati. Eppure, certi temi meriterebbero un approccio diverso.
Per esempio, è meglio diminuire le aliquote Irpef o ridurre il cuneo contributivo? Discutiamone: fermo restando che con i numeri di cui si parla gli effetti saranno ridotti in entrambi i casi, perlomeno si potrebbe lanciare un segnale. Sia chiaro, però, che qualsiasi riduzione del cuneo non può essere fatta senza fiscalizzarne l’impatto attraverso contributi figurativi. In caso contrario, l’effetto negativo sulle future pensioni calcolate col metodo contributivo sarebbe rilevante. Sotto ipotesi realistiche sulle dinamiche dell’economia, per un lavoratore tipo con 40 anni di contributi, un taglio del 10% degli oneri sociali (3 punti percentuali rispetto all’aliquota del 33%) si tradurrebbe in una diminuzione del tasso di sostituzione (il rapporto tra pensione e ultimo stipendio) dall’81% al 74 per cento. Non proprio noccioline. E questi numeri sarebbero ancora più rilevanti per un lavoratore con una storia contributiva frastagliata. Il fatto che nessuno ne parli fa temere la solita trappola per i giovani lavoratori.
Anche se la riduzione dei contributi fosse fiscalizzata, l’operazione nasconderebbe sotto il tappeto una semplice verità (che la riforma Dini ha cercato di rendere trasparente): la nostra bassa natalità e la stagnazione della produttività non ci permettono di finanziare pensioni dignitose col sistema pubblico a ripartizione, a meno di non imporre contributi sociali che strozzano la crescita. Da questo nodo, si esce solo aumentando i tassi di partecipazione (giovani, donne, immigrati) e la produttività. Una riduzione generalizzata delle aliquote Irpef potrebbe dare una mano in questa direzione, perché avrebbe ripercussioni indirette sul costo del lavoro, attraverso le rinegoziazioni del salario tra datori e lavoratori, oltre a garantire un impatto più ampio sugli incentivi di tutti gli italiani.
Lo stesso criterio si applica agli altri temi sul tappeto, dall’Iva alla scuola. Smettiamola di concentrarci sui saldi e valutiamo gli incentivi di ogni intervento. Non sarebbe il caso di disboscare la selva di aliquote e percentuali di compensazione Iva, che sembra fatta apposta per favorire la discrezionalità della politica e dei gruppi d’interesse? Magari c’è un motivo per agevolare i fagiani rispetto alle ostriche, le frattaglie rispetto alle lumache, i molluschi rispetto ai mosti: magari no. E sulla scuola, non diamo l’idea di occuparcene solo per far cassa: il tema dell’orario è legittimo, ma va posto insieme a quelli della valutazione e della differenziazione salariale, per aumentare la qualità dell’insegnamento e premiare quei docenti il cui merito è mortificato da un sistema che non li sa valutare.
Il dibattito pubblico sulla politica economica ha bisogno di un colpo di reni. Non possiamo occuparci solo di battibecchi ragionieristici sui saldi di bilancio. Il rigore è sacrosanto, ma non basta. La nostra politica economica deve cambiare radicalmente gli incentivi degli italiani per farci tornare a crescere. Su come farlo e con quale gradualità, si possono legittimamente avere idee diverse. Sarebbe il caso di parlarne. Magari – anche se a qualcuno sembrerà strano – in campagna elettorale.
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