Meloni e Schlein, vite parallele. O per chi preferisce Wenders a Plutarco: così lontane, così vicine. I punti in comune non si fermano alle apparenze. È vero: una è la prima donna presidente del consiglio e l’altra la prima alla guida del partito democratico. Entrambe sono arrivate alla leadership non per grazia ricevuta, ma attraverso una lotta politica in partiti maschilisti, ognuno a modo suo. Ma c’è di più. Mentre l’ordine globale vacilla sotto i colpi di Trump, ponendo sfide esistenziali all’Europa e all’Italia, Meloni e Schlein appaiono in difficoltà. E, per entrambe, i problemi hanno una duplice natura: alcuni derivano dal quadro politico italiano, altri si annidano in loro stesse.
Meloni deve tenere insieme una coalizione le cui fibrillazioni sono esasperate dalle mosse di Trump. Mentre il fossato tra Europa e Stati Uniti si allarga, per lei è difficile mantenere un rapporto privilegiato con il presidente americano senza perdere il capitale politico accumulato a Bruxelles. Da qui qualche minuetto di troppo. Vado o non vado al vertice di Londra. Appoggio il piano Von der Leyen, ma non parliamo di armi.
Schlein deve tenere insieme un partito ricco di personalità, correnti, idee e politici di professione, inclini a trovare qualche battaglia interna che permetta loro di sopravvivere. Non è facile, come sanno i suoi predecessori. Da qui, anche per lei, qualche minuetto di troppo. Sono contro il riarmo, ma voglio la difesa europea. Anche se non è chiaro come possa costruirla, se mi isolo dalla Commissione e dai socialisti europei.
I problemi esterni, però, pesano meno delle contraddizioni interne. Per entrambe, la crisi globale mette alla prova la tensione tra passato e futuro, tra le radici del loro percorso politico e ciò che vogliono diventare. Eppure, avrebbero vie di uscita credibili per tenere insieme idealità e realismo. Meloni potrebbe dire di sentirsi vicina a Trump e alla sua visione del mondo, ma di sapere che l’interesse dell’Italia si gioca dentro l’Europa e che non permetterà a nessuno di bullizzarla, neanche a The Donald. Il problema è che fatica a dirlo, perché preferirebbe aderire alla corte di Mar-a-Lago piuttosto che rafforzare l’Ue. Ma sa che questo la renderebbe irrilevante. Cuore e testa non vogliono la stessa cosa.
Schlein sostiene una posizione che sfida il principio di non contraddizione. Come si può creare la difesa europea isolandosi da tutti a Bruxelles – come le è successo col voto sul piano Von der Leyen – e senza prima rafforzare le difese nazionali, coordinandole al di fuori della Nato? Prima della moneta unica, ci fu il sistema monetario europeo. E non per caso. Il punto non è se la spesa militare debba essere europea, è chiaro a tutti che debba esserlo, ma se debba aumentare. Non ci sarebbero equivoci se la leader del Pd dicesse di essere favorevole all’aumento degli investimenti europei in difesa e tecnologia, per rafforzare l’indipendenza strategica dagli Stati Uniti. Una parte della sinistra si è scagliata per decenni contro il presunto imperialismo a stelle e strisce, quando non c’era. Perché non farlo ora che esiste davvero? Il problema è che Schlein non può dirlo, perché le armi restano ideologicamente brutte, anche se europee. Visto che per ora la guerra è lontana, suona meglio dirsi pacifisti. Anche per lei, cuore e testa non vogliono la stessa cosa.
Insomma: Schlein non vuole le armi. Meloni non le vuole europee. Non è un tema da poco in questo frangente della storia. È giusto che in democrazia le armi non piacciano. È naturale provare disgusto per il riarmo e per la condizione umana che ci porta a ricaderci. I riformisti pro-Europa e pro-Ucraina dovrebbero mostrare più empatia verso questi sentimenti. Ma sarebbe irresponsabile pensare che la guerra sia scomparsa dalle relazioni internazionali. Le armi sono disgustose, ma servono a difendersi. Se le democrazie soccombono, non ci sono più sicurezza sociale o diritti che tengano. Il pane e le rose hanno bisogno di eserciti che li difendano, auspicabilmente senza essere mai usati. I fucili dei partigiani e delle partigiane che ci hanno donato la democrazia, insieme agli eserciti alleati, ci commuovono ancora. E non possiamo negare il ruolo che in passato ha avuto la deterrenza nel frenare l’espansione di stati autoritari.
In questa fase, che nessuno avrebbe voluto vivere, l’Europa torna a porsi domande esistenziali. Come nei primi anni ’50, quando la guerra fredda e il conflitto tra le due Coree, come racconta Jean Monnet nelle sue memorie, spinsero alcuni stati europei a siglare un trattato di difesa comune. La mancata ratifica di quel trattato rese necessario l’ombrello Nato sotto l’egida americana. Oggi, debito comune, sicurezza sociale, sostenibilità ambientale, unione fiscale e tecnologica richiedono un esercito comune, almeno per quei paesi pronti a costruire una vera sovranità europea. Hic Rhodus, hic salta. Peccato che nessuna delle leadership più forti in Italia abbia voglia di saltare.
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