Michele Ballerin ha scritto un intervento stimolante sul senso del riformismo per iMille. Il punto d’avvio è la soddisfazione per la recente Conferenza nazionale per il lavoro del Partito Democratico, conclusasi con un documento che viene definito clamoroso per due ragioni: (1) perché finalmente il partito prende una posizione chiara su questi temi (e di questo, in verità, ci rallegriamo tutti) e (2) perché si tratta di una posizione coraggiosa in cui si rilancia “l’esigenza di ricorrere alla leva fiscale per redistribuire la ricchezza nazionale”. Tanto da destare stupore che qualcuno “abbia accolto questa innovazione con un attacco di coliche”. Le critiche di Ballerin ai malpancisti, tra i quali si è a più riprese arruolata anche la pattuglia di qdR, meritano due riflessioni al margine.
PRIMA RIFLESSIONE: LA STORIA DEL RIFORMISMO
Secondo Ballerin, chiunque critichi la deriva del Pd verso le rassicuranti sponde di una visione socialdemocratica e laburista di stampo classico, imperniata sulla centralità del lavoro e sull’intervento pubblico a fini redistributivi, “dovrebbe in primo luogo indicare quelli che considera i guasti storici del laburismo”. E perché mai? Il compromesso socialdemocratico tra capitalismo di mercato e stato sociale appartiene alle grandi invenzioni della storia umana, insieme alla ruota e alla penicillina. Non è il suo fallimento a richiederne il superamento, ma, al contrario, il suo successo. Il passaggio da società “piramidali” (con tanti poveri alla base e pochi ricchi in cima) a società “a rombo” (con una grande classe media nel mezzo) ha trasformato profondamente struttura sociale e intervento pubblico. Nella società dei consumi e dell’istruzione di massa, la sfera personale (per fortuna) non coincide più con quella lavorativa. Le politiche pubbliche hanno spesso cambiato natura, perseguendo fini distributivi (finanziati con inflazione, disavanzo pubblico o tasse nascoste, a seconda dei casi) piuttosto che redistributivi. E la globalizzazione sta ora estendendo la classe media ad altre parti del mondo, portando anche lì, sia pure tra mille “stop and go”, le conquiste del secolo socialdemocratico (con buona pace dei nemici della globalizzazione neo-liberista).
Il problema è che il successo della socialdemocrazia si è a un certo punto trasformato nel suo fardello. Perché vecchie ricette e forme d’intervento hanno smesso di funzionare in una realtà radicalmente mutata. Come avviene anche nella vita delle persone, i segreti dei successi passati possono tramutarsi nelle cause dei fallimenti futuri. Perché non c’è niente di più difficile che allontanarsi da quelle cose che ci hanno regalato momenti felici, anche se adesso si sono trasformate nelle cause dei nostri passi falsi. Ecco perché i riformisti polemizzano con le derive laburiste, non perché non abbiano nostalgia per la stagione d’oro della sinistra del XX secolo, ma perché non vogliono che quella nostalgia finisca per affondare la sinistra del XXI.
SECONDA RIFLESSIONE: IL FUTURO DEL RIFORMISMO
Secondo Ballerin, “essere riformisti non significa essere moderati, se non accidentalmente: significa promuovere riforme, e queste riforme possono essere, all’occorrenza, profonde e perfino radicali.” Si tratta di un’analisi da condividere in pieno. Applausi dalla curva riformista. Peccato che, nel citato documento del Partito Democratico, di riforme radicali in grado di rivoltare la realtà italiana come un calzino non vi sia traccia. Gratta gratta, al di sotto di un impasto ideologico fatto di nostalgie laburiste e di cantilene anti-mercato (come se la stagnazione di produttività e investimenti negli ultimi decenni in Italia abbia qualcosa a che spartire con gli eccessi del mercato selvaggio!), non c’è neanche l’ombra di una riforma radicale.
Per esempio, in tema di dualismo del mercato del lavoro, il documento snocciola paroloni sui danni del neo-liberismo (di quale paese stiamo parlando?) e sulla centralità del lavoro “dopo Cristo” (c’era proprio bisogno di scomodarlo?), ma in tema di proposte concrete si limita a dire che “la soluzione non sta nel contratto unico” e quindi nel riequilibrio delle tutele tra protetti e non protetti. E a proporre l’innalzamento dei costi contributivi sul lavoro flessibile. Per carità, proposta ragionevole (a patto che se ne valutino con cura le ripercussioni sulla probabilità dei giovani di trovare lavoro in tempi di crisi), che lo stesso Tremonti sta caldeggiando. Dopodiché, cosa? I guasti del dualismo e dei divari generazionali in Italia saranno magicamente riassorbiti dal riequilibrio contributivo e da qualche polemica anti-liberista?
Insomma, a dir poco, la montagna ha partorito il topolino. Tanto da far sorgere il dubbio che il vero moderatismo non si annidi tra chi critica quel documento, quanto piuttosto tra i suoi estensori.
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