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Mi chiamo Mork e polemizzo col liberismo

Tommaso Nannicini
Economia/#liberismo

Secondo Stefano Fassina (responsabile economia del Pd), “è ora di rottamare il neo-liberismo”. Secondo Enrico Rossi (presidente della regione Toscana), dobbiamo chiudere un ventennio segnato dal liberismo, “con il centrosinistra che ha dimostrato subalternità rispetto a questa ideologia”. Secondo Matteo Orfini (responsabile cultura del Pd), i problemi dell’Italia nascono dall’avere rincorso liberismo e flessibilità, errore commesso anche dall’Ulivo e dai suoi “governi del patto con l’establishment”. Sono solo tre esempi di una folta galleria. Cambiano i toni e i bersagli polemici (Giavazzi, Ichino e il Veltroni del Lingotto i più gettonati), ma il refrain è sempre lo stesso: secondo il nuovo gruppo dirigente del Pd, i mali dell’Italia e le sconfitte del centrosinistra nascono dalla subalternità ai miti del mercato e della concorrenza senza regole.

Mi è capitato di definire queste posizioni “nostalgie socialdemocratiche”. Mi sbagliavo. Per l’insistenza (a mo’ di gospel) e l’assenza di contesto con cui vengono ripetute, sembrano più le analisi di un extraterrestre, di un simpatico e stranulato Mork catapultato in una realtà di cui non comprende le coordinate.

MORK VA IN BRASILE (E IN ITALIA)
Perché extraterrestre? Perché, tanto per fare un esempio, il nostro Mork anti-liberista non sembra aver mai messo piede in Brasile. Lasciamo stare le disquisizioni sul concetto di liberismo, o su che cosa significhi concorrenza “senza regole”, visto che il mercato è per definizione un’istituzione fatta di regole. Basta andare in uno dei paesi protagonisti dello sviluppo globale per accorgersi dell’assenza di contesto di queste polemiche. Il Brasile sta crescendo da anni a ritmi sostenuti grazie alla capacità di attrarre investimenti dall’estero e di competere sui mercati internazionali. I dividendi della crescita economica hanno permesso il finanziamento dei programmi “Bolsa Escola” (con Cardoso) e “Bolsa Familia” (con Lula), che hanno dato opportunità di studio e fuoriuscita dalla povertà a milioni di bambini. Sempre con Lula e sotto il pungolo di favorire gli investimenti stranieri, è stato lanciato un programma anti-corruzione di grande efficacia (basato su audit indipendenti di amministrazioni locali estratte a sorte mensilmente).

Provate a dire ai brasiliani che devono smetterla di rincorrere il mito della globalizzazione, per combattere da soli disuguaglianza e corruzione. Vi risponderanno con una pernacchia. La pernacchia che meritano certe analisi euro-centriche (dal sapore vagamente colonialista) per cui dovremmo fermare il mondo adesso che l’Europa sta perdendo colpi. La dura legge della concorrenza internazionale andava bene prima, quando eravamo noi a fare i bulli sui mercati globali. Ma non adesso che permette a milioni di cinesi, indiani e brasiliani di uscire dalla povertà, pur tra mille ritardi, contraddizioni e persistenti disparità.

Ma il nostro Mork anti-liberista non deve aver visitato granché neanche l’Italia. Il belpaese come terra devastata dalla concorrenza selvaggia? Non scherziamo. Crescita zero in produttività e investimenti; qualità sempre più bassa di scuola e università; attaccamento alla rendita che prevale sulla voglia di rischiare: è difficile pensare che questi mali derivino dall’eccesso di liberismo. Mercati protetti e invadenza della sfera pubblica restano la norma. Con tutti i limiti delle privatizzazioni all’italiana, ci vuole coraggio per rimpiangere i tempi della Sip e dei panettoni di stato. Non si sa neanche quale sia l’establishment liberista evocato da alcuni: banche e grandi famiglie del capitalismo italiano tutto sono tranne che tifosi della concorrenza. E nella Toscana amministrata da molti dirigenti laburisti, dalle fondazioni bancarie alle municipalizzate, non si muove foglia senza che la politica non voglia.

Infatti, se gli viene chiesto qualche esempio concreto, il Mork anti-liberista cita solo le leggi Treu e Biagi. Due leggi che hanno ridotto la disoccupazione giovanile (qualcuno, per favore, rilegga i dati degli anni ’80!) e creato qualche valvola di flessibilità per le imprese, ma che – questo sì – hanno scaricato i costi della precarietà solo sui giovani, perché non sono state accompagnate da una rete universale di protezione contro la disoccupazione. Francamente, un po’ poco per fare dell’Italia la patria del liberismo.

UN VADEMECUM RIFORMISTA PER L’ITALIA DI OGGI
Tutto bene, quindi? Viviamo già nel migliore dei mondi possibili e dobbiamo solo cantare le lodi del mercato? Niente affatto. Ci sono – e sempre ci saranno – molti fallimenti del mercato da correggere (e molti fallimenti dello stato da superare). A seconda dei casi, le distorsioni nascono da una finanza con regole sbagliate, da imprese che abusano di posizioni dominanti, o da politici che ricercano il consenso a colpi di spesa pubblica. La ricetta per rimuovere queste distorsioni dipende dal contesto. Negli Stati Uniti, per esempio, serve spesso più intervento pubblico. In Italia, serve spesso più concorrenza. Ogni progetto di cambiamento va calato nel contesto in cui deve vivere. È questa la fatica e la bellezza del riformismo.

In un libro che ho appena curato per l’Università Bocconi Editore, Non ci resta che crescere. Riforme: chi vince, chi perde, come farle, una nutrita pattuglia di esperti, animata da rigore e passione civile, si è cimentata con alcune domande sulle riforme che servono al paese: che cosa fare nel breve e nel lungo periodo, e soprattutto come farlo politicamente (mobilitando i “vincitori” e sconfiggendo o compensando i “vinti”). Ne viene fuori unquadro di riforme a tutto tondo. Le proposte sono articolate a seconda dei settori d’intervento: più concorrenza nei mercati (servizi alla persona, professioni, commercio, servizi pubblici locali); un intervento pubblico di tipo nuovo, imperniato sui concetti di valutazione e di selezione (nella scuola, nell’università e nella pubblica amministrazione); e uno stato sociale che sappia scegliere in maniera trasparente e sostenibile chi è chiamato a farcela da solo e chi deve invece essere aiutato. Anche perché fornire una rete di protezione credibile diventa cruciale quando si chiede di rischiare e mettersi in gioco. Gettarsi da un aereo è sempre pericoloso, ma farlo senza paracadute è semplicemente folle.

È intorno a questi temi e proposte (e non a stranulate polemiche ideologiche) che dovremmo confrontarci. La discussione potrebbe rivelarsi interessante e, a tratti, sorprendente, magari capace di abbattere anche vecchi steccati politici. A patto di rimettere i piedi sul pianeta terra. Nano, nano.

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