Ci attendono settimane decisive per capire se e come le riforme istituzionali andranno in porto. Lo diciamo da un po’, ma a questo giro potrebbe essere vero. La legge elettorale, dopo essere stata relegata in secondo piano dallo scontro sul Senato, torna sotto i riflettori. Vuoi per la recente disponibilità al dialogo del M5S, vuoi perché è difficile ipotizzare che i partiti trovino un accordo complessivo senza fissare i paletti delle regole che tradurranno i loro voti in seggi.
Sul piano politico, si registra una curiosa voglia di far parte del futuro accordo, almeno a parole. Berlusconi ha richiamato all’ordine i malpancisti all’interno dei suoi gruppi parlamentari. Il M5S è invece uscito dall’isolamento che si era auto-imposto. Sul Corsera di ieri, Luigi Di Maio ha detto che premio di maggioranza e doppio turno non sono un ostacolo al dialogo col Pd. Di più: ha fatto capire che la strategia grillina è cambiata perché ci sono “altri 4 anni di legislatura davanti” e bisogna incidere sulle scelte che si profilano.
In verità, da una semplice analisi degli interessi in campo, non è chiaro perché Fi e M5S siano così attratti dalla voglia d’accordo. Alla nuova legge elettorale si possono chiedere tre cose: 1) individuare un vincitore certo e dotarlo di una maggioranza in grado di governare; 2) ridurre la frammentazione, favorendo i partiti grandi a scapito dei piccoli; 3) migliorare la selezione politica, rendendo effettiva e competitiva la scelta degli eletti da parte degli elettori.
Il Pd è ossessionato dal primo obiettivo (anche a scapito degli altri due) e su questo ha cercato un accordo con Fi in chiave bipolare. Il M5S, comprensibilmente, persegue il secondo obiettivo e per questo ha avanzato una proposta alla spagnola: proporzionale con collegi piccoli e quindi con un’alta soglia di sbarramento implicita che taglia fuori i partiti medio-piccoli, a meno che non siano concentrati in aree circoscritte del Paese. Non è chiaro l’interesse grillino a uscire da questo schema per andare incontro al Pd sul premio di maggioranza. Fi resta un rebus. Dopo la pesante sconfitta elettorale, dovrebbe prediligere il secondo obiettivo al pari del M5S. Ma per ora, e per fortuna, l’accordo col Pd sulla governabilità regge.
Perché Fi e M5S si dicono disponibili a un accordo che sembra andare contro i loro interessi? Perché vi antepongono quelli del Paese? Più prosaicamente, si può pensare che il successo di Renzi alle europee li abbia spaventati. Hanno paura che il leader del Pd li additi all’opinione pubblica come chi affossa le riforme per meri interessi di bottega. Meglio mangiare la minestra che essere costretti, dagli elettori, a saltare dalla finestra. Un’altra possibilità, però, è che nell’uno o nell’altro caso si tratti solo di un bluff. È bene che il Pd resti vigile.
Resta poi da considerare il merito delle scelte. Al di là delle opinioni che si possono avere sul Senato elettivo, ci sono pochi dubbi che il superamento del bicameralismo paritario sarebbe un successo. Ma è importante non distrarsi sulle funzioni da attribuire al futuro Senato non elettivo. Si parla di aggiustamenti che aumentino le sue competenze in materia di leggi di bilancio. Esattamente l’opposto di quello che serve. Un Senato espressione delle autonomie locali rischia di far esplodere il peso degli interessi particolaristici nelle logiche di spesa. Se si vuole rafforzare il ruolo del nuovo organo costituzionale, serve più fantasia, aumentandone le funzioni ispettive e di controllo. Per esempio in tema di nomine pubbliche, dove c’è bisogno di un dibattito trasparente sui criteri di scelta. Un nuovo Senato ha bisogno di nuove funzioni, non di una versione annacquata delle precedenti.
Sull’Italicum, ci sono elementi critici che si potrebbero superare senza stravolgerne l’impianto. Non è pensabile che i partiti piccoli, quelli al di sotto della soglia per entrare in Parlamento, contribuiscano con i loro voti al raggiungimento della soglia che potrebbe garantire il premio di maggioranza alla coalizione cui appartengono. C’è poi il tema delle liste bloccate. Piaccia o no, ci sono solo due modi per evitarle: i collegi uninominali o le preferenze. Dal momento che i collegi uninominali possono essere innestati nell’Italicum senza che servano per allocare i seggi ma solo per scegliere gli eletti, come nella vecchia legge per le provinciali, non è chiaro perché Pd e Fi non spiazzino tutti adottandoli. Toglierebbero un’arma polemica agli oppositori delle riforme senza stravolgere di una virgola la logica del loro accordo.
Insomma: c’è da augurarsi che il treno delle riforme arrivi a destinazione senza intoppi. Ma c’è anche da sperare che ci siano a bordo operai specializzati in grado di aggiustarne le avarie mentre il treno continua a correre.