L’EVANESCENZA DEL PD SUL LAVORO
Nelle scorse settimane, in tema di lavoro, Bersani ha oscillato tra contenuti evanescenti e bluff. Così su Twitter: serve una riforma che coniughi “cambiamento”, “coesione sociale” e accordo di tutti. Perché non la pace nel mondo? Tutto qui quello che ha da dire un grande partito riformista? (Per favore, non si rimandi a documenti su apprendistato e cuneo contributivo.) Poi, è arrivato il bluff: terremo le mani libere se non ci sarà l’ok della Cgil. Per la serie, la linea del Pd è appaltata alla Camusso.
La confusione non nasconde incompetenza. Bersani è un politico capace, e lo stesso vale per molti dirigenti del suo cerchio magico. Il nodo è politico. Il Pd in salsa socialdemocratica è spiazzato dal governo Monti, che pure ha contribuito a far nascere. Prima la linea era chiara: di fronte alla crisi economica e al cosiddetto fallimento del liberismo, la risposta doveva venire da parole d’ordine come intervento pubblico, concertazione e diritti dei lavoratori (quali?). Ma questa linea è: 1) basata su un’analisi sbagliata dei problemi strutturali dell’Italia; 2) diversa dal mandato con cui Bersani è stato eletto; 3) difficile da conciliare con le riforme liberali di Monti.
LA TIMIDEZZA DEL GOVERNO SUL WELFARE
Monti deve andare a vedere il bluff del Pd. Le prediche sulla monotonia del posto fisso e le legittime rivendicazioni che il governo andrà avanti anche senza sindacati non danno consenso (sì, anche i governi tecnici ne hanno bisogno). Ciò che serve è mettere i soldi sul tavolo della trattativa. È illusorio pensare di riformare la regolamentazione del lavoro senza creare una protezione universale del rischio disoccupazione. Meno pensioni, più welfare: è stato questo il mantra riformista per anni. La prima parte è arrivata, ritardare la seconda toglierebbe credibilità a tutto l’impianto. Certo, non è facile in tempi di vacche magre e crisi del debito. Ma il nostro è un paese pieno di risorse, che ha appena scoperto di disporre di un esercito di finanzieri senza bisogno di assunzioni di massa. E la sfiducia dei mercati investe le prospettive di crescita, non uno stock di debito che è sempre lo stesso.
L’art. 18 non va ritoccato per creare occupazione o superare il nanismo delle imprese (i benefici su questi fronti sono dubbi). Va ritoccato, rendendo certi i costi di licenziamento per ragioni economiche, perché in Italia le riallocazioni produttive e i conseguenti guadagni di produttività sono troppo lenti. Gli italiani, pena un dolce ma inesorabile declino, devono darsi una mossa in un contesto in cui i paesi sviluppati sono chiamati a sforzi titanici per non perdere competitività. E ciò riguarda il settore privato quanto quello pubblico, dove valutazione e mobilità del lavoro sono altre due carte da calare subito. Maggiore mobilità, tuttavia, chiama nuove tutele. Buttarsi da un aereo è sempre pericoloso (ed è legittima l’ansia di chi deve farlo), ma gettarsi senza paracadute è folle. Se vogliamo convincere gli italiani a rischiare e accettare le sfide del cambiamento e della formazione lungo tutto l’arco della vita, dobbiamo dargli un paracadute. Una parte dei costi può essere scaricata sulle imprese, in cambio di una maggiore flessibilità. Ma solo una parte, perché il nuovo welfare dovrà coprire tutti.
Che cosa dovrebbe fare il Pd se si materializzassero interventi del genere, anche senza il favore dei sindacati? Appoggiarli senza se e senza ma. Salvo concentrarsi dal giorno dopo su come metterli a frutto con riforme di lunga lena, spostando il carico fiscale da chi produce ricchezza verso chi detiene ricchezza, e iniettando valutazione, selezione e più risorse negli unici settori dove ci giochiamo il futuro: istruzione, istruzione, istruzione. Ma questa è un’altra mano della partita, che riguarda l’identità del Pd nel dopo-Monti. Una mano che andrà giocata, possibilmente, in un congresso.
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