«Abolire il precariato per referendum è un po’ come abolire la povertà per decreto. Sono iniziative estemporanee. Le fai solo quando senti che la tua funzione di rappresentanza dei lavoratori e delle lavoratrici non funziona come dovrebbe».
Tommaso Nannicini, ex senatore pd e co-autore del Jobs Act, non firmerà i referendum della Cgil.
Professore, perché? Difende la sua creatura?
«Ci sono pezzi sbagliati e altri incompiuti di quella riforma. Ma se parliamo del contratto a tutele crescenti, introdotto da uno degli otto decreti legislativi del Jobs Act, e quindi dell’indennizzo che cresce al crescere dell’anzianità in caso di licenziamento illegittimo, già non esiste più. Cancellato dalle sentenze della Corte Costituzionale e anche dal decreto Dignità del Conte I che ha aumentato l’indennizzo massimo da 24 a 36 mesi».
lI referendum però serve a ripristinare l’articolo 18, cioè la reintegra
«Abolire il contratto a tutele crescenti che già non esiste più, come dicevo, non significa ritornare all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Ma all’ultima modifica di quella norma fatta dalla riforma Monti-Fornero che aveva già ridotto l’articolo 18 all’ombra di se stesso. E che tra l’altro prevedeva pure meno mensilità di indennizzo: solo 24. Un referendum senza senso».
Lei dice che ci sono pezzi sbagliati e incompiuti del Jobs Act. Quali?
«Era la prima riforma che provava a dare una stretta al precariato: rider, in anticipo con i tempi, finte partite Iva, abolizione dei cocopro, il nuovo sussidio di disoccupazione Naspi più ampio su cui investivamo 2,5 miliardi, raggiungendo il 97% dei dipendenti. Poi però è stata anticipata dal decreto Poletti che liberalizzava i contratti a termine. E viene ricordata solo per quello e per l’articolo 18. L’errore politico del Pd e del suo leader di allora è stato parlare solo di licenziamenti, vendere una riforma complessa come un feticcio ideologico».
Il Jobs Act ha aumentato il precariato?
«Al contrario l’ha combattuto, rispetto alle riforme precedenti, dalla Treu alla Biagi, puntando per la prima volta sulla flessibilità buona, abolendo i cocopro, contrastando le dimissioni in
bianco, stringendo le false partite Iva. Avremmo potuto fare di più. Ma la direzione era giusta. Non c’era bisogno di enfatizzare l’articolo 18 che già era stato cambiato da Monti, con l’appoggio del Pd di Bersani, e usarlo come simbolo. Una riforma pensata per giovani e outsider è stata percepita come pro-imprese. Il simbolo si è vendicato».