La proposta di Pietro Grasso di abolire le tasse universitarie per tutti produrrebbe effetti fortemente regressivi, rubando ai poveri per dare ai ricchi. Il motivo è semplice. Chi proviene da contesti familiari che presentano difficoltà economiche e sceglie di non proseguire gli studi non lo fa per colpa delle tasse (che tra l’altro, grazie alla no tax area introdotta dal governo Renzi, non sono più in vigore per chi ha un Isee inferiore a 13 mila euro e sono state fortemente ridotte per Isee fino a 30 mila), ma per altri motivi: perché la sua famiglia non può permettersi di rinunciare a un reddito per 3 o 5 anni, perché non riesce a valutare con precisione i benefici di una formazione universitaria, o perché nessuno lo orienta verso le migliori opzioni in base alle sue capacità. Non è un caso che i figli di laureati e gli studenti provenienti da famiglie con redditi medio-alti siano sovrarappresentati tra chi varca le soglie delle nostre università.
Non solo: spesso livelli di rendimento scolastico bassi mai recuperati fanno sì che molti ragazzi vengano indirizzati, fin dalle scuole medie, verso percorsi formativi «brevi», implicitamente legati a capacità valutate più sui rendimenti che sulle attitudini. È uno dei grandi difetti del nostro sistema formativo, che disegna quelli tecnico-professionali come percorsi di serie B e non come un’alternativa qualificata che può proseguire in formazione terziaria altrettanto qualificata negli Its. Percorsi su cui invece investono molto alcuni paesi, Germania in primis, e su cui dovremmo investire molto di più anche noi, come ci ha ricordato Marco Leonardi sul Sole 24 Ore.
Finanziare l’università solo con la fiscalità generale è un regalo a chi ha più mezzi. Sottolineo solo perché in parte lo stiamo già facendo, giustamente, per incentivare l’accesso a un bene che – come spiega Gianfranco Viesti sul Mulino – produce effetti positivi per la «società nel suo insieme». Molti di questi benefici però rimangono «privati», a disposizione di chi completa il proprio percorso formativo. È per questo che l’università non può essere paragonata alla sanità o alla scuola dell’obbligo, dove l’accesso è universale (anche se permangono disparità territoriali e sociali nella qualità del servizio che vanno superate).
Abolire le tasse universitarie, quindi, vuol dire utilizzare i tributi di tutti per pagare un servizio che avvantaggia soprattutto le classi medio-alte. Non è questa la soluzione. Prima bisogna rimuovere le barriere di accesso e far sì che le porte dell’università siano davvero aperte a tutti, anche a chi è cresciuto in condizioni di disagio o a chi proviene dalla classe media ma non riceve servizi o informazioni adeguate. È partendo da questa impostazione che nella Legge di bilancio 2017 avevamo disegnato un pacchetto complessivo di norme in tema di diritto allo studio, investendo ogni anno 177 milioni, una cifra che non si allocava da decenni in questo settore.
Oltre alla già citata no tax area (i cui meccanismi sono stati descritti da Francesca Barbieri sul Sole 24 Ore), il pacchetto comprendeva:
– servizi di orientamento e tutoraggio per guidare gli studenti nella scelta e accompagnarli verso la sfida che li attende;
– il rifinanziamento fino a 250 milioni di euro del Fondo regionale per il diritto allo studio (incremento subordinato a una maggior efficienza dei servizi e commisurato sulle esigenze di ogni singola regione);
– un programma sperimentale che una nuova fondazione, “Articolo 34”, avrebbe dovuto far partire parallelamente agli altri interventi strutturali, selezionando i migliori 400 studenti delle scuole superiori provenienti da famiglie in condizioni di difficoltà (Isee basso) e premiandoli con una borsa di 15 mila euro netti l’anno per iscriversi all’università dei loro sogni. (Il condizionale è d’obbligo perché la sperimentazione è stata bloccata: per denigrare l’intervento si è parlato di “super borse” e di studenti “super meritevoli”. Il risultato è che in questi due anni 800 giovani provenienti da famiglie povere dotati di un talento su cui valeva la pena investire hanno perso quest’opportunità, nonostante le risorse per aiutarli fossero già stanziate a bilancio.)
Questo sì era un programma attento ai più deboli, mosso da una visione d’insieme. Pensato perché i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, potessero raggiungere i livelli più alti degli studi, come recita la nostra Costituzione. Un primo importante passo nella giusta direzione. Passo, peraltro, che nessun governo della Seconda Repubblica – di centrodestra o di centrosinistra – aveva mai pensato di fare. E dopo anni di trend negativi, l’ultimo ci ha regalato un innalzamento delle iscrizioni universitarie, il più significativo dal 2002.
Ciò detto, molto resta ancora da fare. In primis le famiglie in difficoltà e anche quelle del ceto medio vanno aiutate con un voucher, calibrato sul reddito, per le spese scolastiche come i libri delle superiori. Bisogna poi rafforzare i servizi di orientamento, fin dalle scuole medie, formando e informando i docenti su nuovi sbocchi e profili. Continuare poi a destinare risorse reali a salari di studio (fortemente sottoposti alla prova dei mezzi, con controlli ad hoc) per i capaci e meritevoli anche se privi di mezzi, dando loro quella autonomia economica adeguata a sostenere un alloggio, i trasporti e i libri di testo. Infine, investire più risorse sull’università. Dopo anni di tagli indiscriminati, con la stessa legge di bilancio dello Student act abbiamo iniziato a farlo, innalzando il finanziamento del Fondo ordinario per più del 5% su basi premiali: proprio in queste ore sono usciti i dipartimenti sparsi su tutto il territorio nazionale al cui potenziamento andranno risorse importanti nei prossimi anni. Dobbiamo proseguire: perché la qualità della conoscenza produce crescita ma anche eguaglianza delle opportunità
Sarebbe bello se su questi temi le forze politiche, Partito democratico e Liberà e uguali in primis, potessero trovare un terreno di confronto concreto, lasciando le bandierine ideologiche fuori dalla porta.
Vai al contenuto