Unità

Obiettivo crescita. Una manovra di sinistra

Tommaso Nannicini
Economia/#crescita

La legge di stabilità per il 2016 è stata presentata dal governo nelle sue scelte di fondo, anche se i dettagli saranno noti solo quando il testo sarà depositato in Parlamento. Come è giusto che sia, il dibattito si è subito acceso. E, accanto alla legittima critica di chi non condivide le misure del governo, è subito partita la consueta sfilata di gufi, maestrini e difensori dei valori costituzionali. Una delle regole auree della politica economica è che se una scelta è criticata per ragioni (ideologiche) opposte ci sono buone probabilità che quella scelta sia giusta.

Vediamo le tre critiche più ricorrenti emerse nel dibattito politico-mediatico di questi giorni. Prima: la manovra compra voti con i soldi dei cittadini di domani (leggi: in deficit). Seconda: la manovra non rispetta le regole europee perché non si capisce che c’azzecchi la clausola migranti con il taglio dell’Ires (il cui anticipo è condizionato al riconoscimento in sede europea di maggiore flessibilità per far fronte all’emergenza immigrazione). Terza: la manovra è di destra, perché avvantaggia i ricchi a scapito di lavoratori e pensionati. Le prime due critiche sollevano dubbi comprensibili, anche se mal posti. La terza ha un sapore squisitamente ideologico. Procediamo con ordine.

UNA MANOVRA ESPANSIVA CHE GUARDA AL FUTURO
La manovra economica ha un carattere espansivo, che – tradotto – significa che si fa più deficit del previsto. È una scelta consapevole, fatta nel rispetto della cornice europea dettata dalle nuove clausole di flessibilità. Dopo mesi passati a discettare sui limiti dell’austerità e su come le regole fiscali impedissero politiche per la crescita, adesso ci si sorprende che il governo italiano abbia deciso di usare tutti i margini esistenti per non farsi imbrigliare e sostenere una ripresa ancora fragile. E che lo faccia non solo nel rispetto delle regole europee (a differenza di altri Paesi che in passato le hanno violate unilateralmente), ma continuando a perseguire l’obiettivo di ridurre il rapporto tra debito e PIL (che tornerà a scendere nel 2016 dopo anni in direzione opposta) e facendo scendere quello tra deficit e Pil (che passerà dal 2,6% del 2015 al 2,4% del 2016). Curioso.

Certo, il percorso di aggiustamento sarà più lento rispetto agli impegni eccessivamente onerosi che ci eravamo autoimposti (ancora nel Def di aprile il rapporto deficit/Pil era 1,8% per il 2016). E allora? Chi usa questa contabilità rispetto ai valori programmati piuttosto che ai consuntivi passati, dovrebbe allora riconoscere che la spending review vale più dei 5,8 miliardi indicati dal governo, perché nelle ulteriori misure di efficientamento della spesa ci sono rinunce a maggiori uscite già programmate in passato. Ma la vera domanda è un’altra: c’era davvero bisogno di una manovra espansiva e in deficit adesso che l’economia sta dando segnali di ripresa? La risposta è sì, per due motivi. Primo, perché la crescita è ancora fragile e abbiamo bisogno di sostenerla. Secondo, perché ci sono ancora molte riforme in cantiere e, per farle passare, serve dare un po’ di ossigeno a famiglie e imprese, prostrate dalla crisi. E, si badi bene, aumentare i margini di disavanzo non vuol dire indietreggiare rispetto al cammino della spending review, che è appena cominciato. Al contrario, quei margini potranno permettere di spalmarla nel tempo, rendendola credibile e sostenibile.

C’è modo e modo di spendere, poi. La manovra lo fa con un mix di misure congiunturali e strutturali. Il super bonus sugli ammortamenti vuol far ripartire subito gli investimenti privati. Il taglio strutturale dell’Ires vuol dare fiducia a chi fa impresa. In punta di metafora, il calo dell’Ires è la legna per far ripartire il fuoco della crescita, il bonus ammortamenti è la diavolina che deve far scattare la fiamma. E non ci si ferma lì. I nuovi incentivi fiscali alla partecipazione dei lavoratori e al welfare aziendale vogliono favorire la contrattazione laddove si creano valore aggiunto e guadagni di produttività. Insomma: rilancio degli investimenti privati e della contrattazione aziendale come strumenti per aggredire la stagnazione della produttività. Altro che soldi rubati ai cittadini di domani: queste misure vogliono far ripartire la crescita proprio con uno sguardo rivolto al futuro.

UNA MANOVRA CHE RISPETTA LE REGOLE EUROPEE
Veniamo alla seconda critica (procedurale ma velenosa): che c’azzecca il taglio dell’Ires con la clausola migranti? In realtà, le regole europee prevedono più flessibilità a fronte di “eventi eccezionali” ed è difficile sostenere che l’impennata dei flussi migratori nell’area del Mediterraneo non lo sia. Ciò non significa che le risorse aggiuntive debbano essere spese per accogliere i migranti, questo l’Italia lo fa già da sola (e non da oggi) perché è un Paese responsabile. Il punto è che si deve prendere atto di questo sforzo finanziario, che ha drenato risorse ad altri impieghi. Se questo sforzo verrà riconosciuto, come hanno chiesto anche altri Paesi, l’Italia tornerà a usare quelle risorse per perseguire i propri obiettivi di politica economica, a sostegno di imprese e famiglie, come è normale che sia. Tutto qui. E tutto nel rispetto delle regole europee.

UNA MANOVRA DI SINISTRA A TUTELA DI BISOGNO E MERITO
La terza critica, quella alla manovra “di destra”, è la più strumentale. La manovra taglia le tasse sulla prima casa in maniera non progressiva? E allora? Lo fa dopo che il governo è intervenuto sull’Irpef (80 euro) e sul costo del lavoro, contestualmente alle misure sulla fiscalità d’impresa (Ires ma anche misure per le partite Iva, per l’Irap delle piccole società e per l’Iva sui crediti non riscossi) e in attesa di riformare gli scaglioni Irpef. La mossa sulla prima casa vuol incidere sulle aspettative delle famiglie e in ogni caso c’è una disparità forte tra chi possiede solo una casa (e non pagherà più niente) e chi più di una (e continuerà a pagare): i primi hanno una ricchezza liquida di 44.000 euro, i secondi di 127.000 euro. E la manovra non si ferma lì. Si rinnova lo sgravio contributivo sul tempo indeterminato: favorire l’occupazione stabile è di destra? C’è il Jobs Act sul lavoro autonomo: fisco, previdenza, assistenza e tutele nella committenza (contro i ritardi dei pagamenti, le clausole vessatorie e a difesa della proprietà intellettuale). Difendere i lavoratori autonomi e i tanti giovani free lance è di destra?

Per la prima volta, e al contrario dei governi del passato che su questo hanno fatto molte chiacchiere e solo qualche distintivo, si introduce una misura strutturale di lotta alla povertà impegnando un miliardo di risorse aggiuntive. Per alcuni l’enfasi sui bambini poveri è roba da “conservatorismo compassionevole”. Esattamente il contrario: ci si appresta a introdurre uno strumento di inclusione attiva su tutto il territorio nazionale, dirottando le risorse in maniera prioritaria alle famiglie povere con minori a carico, ma creando un’infrastruttura che coinvolgerà comuni, terzo settore e fondazioni bancarie e potrà essere ulteriormente estesa in futuro. Ci sono poi le misure sul merito nella ricerca scientifica. Anche questa è roba di destra? Per carità. La disuguaglianza è una cosa seria. Troppo seria per trasformarla in una bandierina ideologica che trascende qualsiasi confronto sui contenuti.

Che il governo Renzi cerchi di far ripartire l’economia non fa certo piacere a chi, da Grillo a Salvini, spera di prenderne il posto nel 2018. E che il Pd cerchi di disegnare i contorni di una nuova sinistra di governo, forgiando un’alleanza tra merito e bisogno, non piace a chi rimpiange i contorni di quella vecchia, conservatrice e minoritaria, o a chi spera di cavalcare qualche polemica che gli garantisca un posto ai futuri tavoli delle candidature. Tutti obiettivi legittimi, per carità. È la politica e c’è poco da sorprendersi. Ma meglio non scomodare Giorgio Gaber, i padri costituenti e Carletto Marx per scopi così prosaici.