E alla fine il big bang è arrivato davvero, almeno sul piano elettorale. È difficile sottovalutare la portata simbolica e politica del risultato ottenuto dal Pd di Matteo Renzi alle elezioni europee e amministrative. Chi fa ironia sul parallelismo con la vecchia Dc assegna una valenza politica a un tratto meramente politologico. Il Pd, al momento, è il nuovo perno del sistema politico italiano e, come nella migliore tradizione dei partiti pigliatutto a vocazione maggioritaria, pesca voti in tutti i gangli della società italiana. Non c’è dubbio, però, che un successo di tali dimensioni nasca anche dalla capacità di consolidare i voti tradizionalmente di centrosinistra: come mostrano le prime analisi sui flussi elettorali nelle grandi città, realizzate da Roberto D’Alimonte per il Sole24Ore, il Pd è il partito che è riuscito di gran lunga più di tutti gli altri a farsi rivotar e da chi l’aveva scelto nelle politiche del 2013. È da lì che è partita la conquista di elettori solitamente poco inclini a votare a sinistra, ma disposti questa volta a dare fiducia a una duplice promessa di cambiamento politico edi dinamismo economico.
A grandi successi, si sa, corrispondono grandi responsabilità. Il Pd di Renzi dovrà affrontare la difficile sfida di consolidare questo consenso, anche in appuntamenti elettorali dove l’astensione sarà minore e dove il centrodestra finirà per riorganizzarsi (come d’altronde non può che augurarsi chi crede nelle virtù del bipolarismo). Il governo Renzi dovrà passare velocemente dalla politica alle politiche, dimostrando che la fiducia che ha catalizzato era ben riposta. Una sfida da doppio salto mortale. Una sfida da giocare in casa, con scelte di governo che tolgano dal torpore la nostra economia, e in Europa.
Da più parti, s’invoca la rottamazione delle politiche di austerità. D’accordo, ma bisogna intendersi. Se ci limitassimo a qualche sussulto retorico contro l’austerità imposta dai tedeschi brutti e cattivi, per poi allentare i cordoni della spesa e niente più, andremmo da poche parti. Qualcuno pensa davvero che i problemi dell’economia italiana si risolvano con un po’ di spesa pubblica in disavanzo? Se fosse così facile, sarebbe stato davvero criminale non averci pensato prima.
In verità, ci avevamo pensato prima, nel corso della Prima Repubblica, ma è proprio da quel metodo di finanziamento (drogato) della spesa pubblica che sono nati molti dei nodi strutturali dell’economia italiana. Adesso, abbiamo bisogno del metadone, cioè di un po’ di politiche espansive che ci facciano sopravvivere alla crisi, ma c’illuderemmo se pensassimo di tornare a crescere a colpi di stupefacenti. Servono riforme in grado di aumentare la produttività della nostra burocrazia e della nostra giustizia, ammortizzatori sociali universali per il lavoro flessibile, più concorrenza nei servizi alle imprese e alle famiglie, il rilancio degli investimenti in scuola e università ma solo dopo una cura di selezione e meritocrazia, un ridisegno delle tasse che vada oltre i bonus e renda permanente una redistribuzione del carico fiscale da lavoro e impresa verso ricchezza immobiliare e finanziaria. La struttura economica del Paese sarà chiamata a un profondo aggiustamento della sua specializzazione produttiva; aggiustamento che la politica industriale dovrà facilitare e accompagnare, senza l’illusione di poterlo guidare dall’alto. I primi segnali di fiducia che arrivano dalle agenzie di rating e dall’asta sui titoli di stato andranno rafforzati a colpi di riforme in grado di attirare investimenti dall’estero.
Tutte queste riforme, piaccia o no, non sono gratis. Alcune perché, letteralmente, hanno bisogno di risorse che vanno trovate da qualche altra parte (comunque vada a finire la partita europea, la Merkel non pagherà tutto il conto). E alcune perché rimuovono rendite di posizione, più o meno legittime, su cui molte persone fanno affidamento, creando un impatto recessivo nell’immediato. In politica, è difficile far passare riforme con benefici di lungo periodo e costi di breve periodo (chiedetelo a Schröder). Proprio per questo serve meno rigidità nelle politiche di bilancio: per rendere politicamente ed economicamente sostenibili gli interventi di cui l’Italia ha bisogno per aumentare la produttività totale dei fattori. Insomma, contrattare un po’ di flessibilità (temporanea) nella gestione dei conti pubblici in cambio di riforme costose è necessario per farle passare. Non perché la spesa in disavanzo, da sola, possa farci tornare a crescere. Non è una discussione di lana caprina. Passa da questa consapevolezza la strada di un successo duraturo e non effimero della nuova “strategia per la crescita” che un po’ tutti in Europa dicono di voler inaugurare.