Le nuove ragioni del socialismo

Ora la sinistra potrebbe unirsi, ma…

Tommaso Nannicini
Democrazia/#sinistra

Le ultime elezione politiche hanno lasciato un cumulo di macerie sul campo della sinistra italiana. I DS, ovvero il maggiore partito della sinistra, sono scesi al 16,6% (soltanto il PDS del 1992 aveva saputo far peggio con il 16,1%, ma allora esisteva un PSI al 13,6%); lo SDI è uscito polverizzato dall’esperienza del Girasole; il tentativo del tutto contro-natura di far rivivere una parte della tradizione del socialismo italiano all’ombra del centrodestra si è infranto contro lo scoglio non del 4% ma dell’1%. Come se non bastasse, il permanere di fratture lasciate in eredità dal passato, la mancata nascita di una nuovo gruppo dirigente e l’assenza di prospettive credibili per il futuro addensano ombre minacciose sulla capacità dell’Ulivo di rilanciare il confronto con il centrodestra per la guida del paese. È infatti impensabile che l’Ulivo possa svolgere il suo ruolo nella nostra neonata democrazia maggioritaria, senza una sinistra moderna al proprio interno.
È partendo da questo quadro poco incoraggiante che vanno lette sia la proposta lanciata da Giuliano Amato all’indomani della sconfitta elettorale per l’unificazione delle forze d’ispirazione socialista, sia la discussione apertasi all’interno dei DS con l’inizio del percorso congressuale, che si concluderà a Pesaro tra il 16 e il 18 novembre. Le altre forze del centrosinistra e i cittadini preoccupati per le prospettive legate a una stagione di governo del centrodestra aspettano con apprensione l’esito del congresso DS, sperando che da quel consesso possano nascere scelte chiare e coraggiose. Può essere utile analizzare le tre mozioni che si confrontano nel congresso proprio in questa prospettiva, cioè per come si collocano rispetto al progetto Amato e cosa propongono in tema di scelte strategiche sul futuro della sinistra e dell’Ulivo.
Tutte le mozioni riconoscono il valore strategico dell’Ulivo come strumento politico per contendere al centrodestra il governo del paese. La mozione Morando è la più esplicita su questo punto, sottolineando che nel sistema politico italiano è l’Ulivo il vero soggetto a vocazione maggioritaria. Tutte le mozioni, comunque, si sforzano di avanzare una serie di proposte capaci di radicare sempre di più la coalizione. Anche qui, è la mozione Morando a spingersi più in là, proponendo la federazione dei gruppi in tutte le assemblee elettive, le primarie di coalizione per individuare i candidati nelle elezioni a natura maggioritaria (a partire dalla scelta del candidato premier) e la possibilità d’iscrizione individuale all’Ulivo senza il filtro di un partito membro. La mozione Fassino accoglie le proposte di federazione dei gruppi parlamentari, portavoce unici nelle commissioni e conferenza programmatica annuale. La mozione Berlinguer lancia le
proposte di federazione dei gruppi parlamentari, portavoce comuni sui temi programmatici e apertura ai cittadini dei comitati di collegio. In ogni caso, il valore strategico dell’Ulivo non è più fonte di divisione sotto i rami della Quercia, anche se le due mozioni che probabilmente otterranno consensi più ampi restano avare di disegni concreti, indispensabili per fare della coalizione un soggetto politico stabilmente strutturato, al di là delle dichiarazioni solenni rispolverate ad ogni tornata elettorale.
Il vero nodo del contendere tra le mozioni, quindi, sembra giocarsi sulle diverse idee di sinistra e sui contenuti da dare al progetto Amato. Progetto che attende di essere specificato nei suoi confini e nei suoi contenuti, ma che per il momento appare- per usare un’espressione di Vittorio Foa- come l’unica “mossa del cavallo” (la mossa che salta lateralmente, alla ricerca di terreni e livelli diversi) a disposizione della sinistra italiana.
A parole, due mozioni su tre condividono l’intuizione amatiana di porre fine alla lunga storia di divisioni e scontri fratricidi che ha segnato la sinistra italiana, lasciandosi alle spalle contrasti nati e vissuti insieme alle culture politiche del Novecento. Solo la mozione Berlinguer si mostra fredda rispetto al progetto d’unificazione della sinistra riformista, avanzando timidamente la proposta di federazione tra DS, SDI, PDCI e Verdi. E soprattutto, riproponendo in filigrana un mito della diversità delle forze provenienti dal PCI che fa a pugni con la creazione di un progetto politico innovativo per tutta la sinistra. Per carità, l’approdo dei DS al socialismo europeo non è messo in discussione da nessuno: anzi, è solennemente rivendicato da tutti (anche se solo oggi e non con la svolta del 1991, quando avrebbe assunto un altro significato). Nella mozione Berlinguer, tuttavia, rimangono parole d’ordine ed automatismi mentali che appaiono come residuati bellici dell’era ideologica. Esiste il rischio che questa mozione attiri le paure di apertura e contaminazione con altre culture presenti nel corpo dei DS, spingendo il partito verso un ripiegamento su se stesso, all’insegna di un’orgogliosa e anacronistica rivendicazione di superiorità morale e integrità ideologica.
È comunque un fatto positivo che sia la mozione Fassino sia la mozione Morando dichiarino di condividere l’obiettivo d’unità della sinistra di governo, sotto le insegne del partito del socialismo europeo. Le parole, tuttavia, non bastano: l’accordo sulla creazione di un nuovo contenitore unitario è una condizione necessaria ma non sufficiente per realizzare un progetto politico di lungo respiro. Si dovranno individuare percorsi concreti affinché il progetto Amato non si annacqui fino a diventare una brutta copia del congresso di Firenze che ha visto nascere i DS, dove lo stesso disegno d’unità e contaminazione si è infranto contro lo scoglio delle ambiguità e dei verticismi. Entrambe le mozioni vogliono scongiurare questo pericolo, ma le proposte dei morandiani appaiono più credibili su questo punto.
La mozione Morando non solo propone tempi certi per realizzare il partito unico (entro e non oltre l’estate 2002), ma tratteggia con maggiore precisione un disegno capace di valorizzare l’intuizione amatiana: attraverso la scelta di una leadership coerente (non per farsi “cooptare da Amato”, ma per mandare un segnale di vera discontinuità rispetto all’immagine del maggiore partito della sinistra), l’individuazione di nuove forme d’impegno politico capaci di intercettare energie dall’esterno ed un consapevole rinnovamento politico e culturale. Solo se si fonderà su un chiaro rinnovamento della cultura politica in seno al socialismo europeo, il partito unico della sinistra riformista rappresenterà un grande progetto politico per il futuro, piuttosto che un tentativo tardivo di mettere una pezza sulle divisioni del passato. Ed è su questo punto che la mozione Morando (e in maniera più cauta quella Fassino) invita la sinistra a premere l’acceleratore, partecipando da protagonista al dibattito sulla nuova agenda liberalsocialista aperto in tutto il mondo occidentale, senza i tatticismi e i cascami ideologici che hanno frenato la sinistra italiana anche quando si è trovata al governo del paese.
Se davvero si farà il partito unico della sinistra di governo, si aprirà inevitabilmente una competizione (più o meno virtuosa, a seconda delle modalità) tra le due gambe dell’Ulivo: la Margherita e il progetto Amato. La mozione Fassino e quella Morando affermano con forza che la competizione dovrà essere virtuosa e non dovrà esserci divisione dei ruoli tra le due gambe, rispetto all’orizzonte programmatico (Fassino), o rispetto sia all’orizzonte programmatico sia al tema delle alleanze con le forze extraUlivo (Morando). La mozione Berlinguer, al contrario, caldeggia più o meno apertamente un’idea di coalizione fondata sulla divisione dei ruoli tra sinistra e centro, rispetto sia ai fondamenti teorici sia agli interessi di riferimento. Da un punto di vista politologico, al di là delle dichiarazioni del momento, la configurazione dell’Ulivo e il rapporto tra l’anima centrista e quella socialista (ammesso che entrambe si strutturino come soggetti a vocazione maggioritaria, in contrasto con la linea berlingueriana della divisione dei ruoli) si scioglierà solo dopo una serie di verifiche elettorali. Inevitabilmente, se una delle due forze dovesse acquisire un peso elettorale stabilmente più consistente, la coalizione acquisterebbe una più marcata configurazione culturale, presentandosi come un’alleanza “ad un partito e mezzo”. Al contrario, se le due gambe dovessero stabilizzarsi su un peso elettorale equivalente, assisteremmo ad una vera alleanza da pari con meccanismi chiari di selezione della leadership a tutti i livelli, in maniera simile alla collaborazione tra giscardiani e gollisti nel centrodestra francese.
C’è un punto sul quale tutte e tre le mozioni si mostrano reticenti: il nodo della storia della sinistra e delle sue divisioni. È senz’altro vero che occorre guardare avanti, alle sfide dell’oggi e alle soluzioni che la sinistra è capace di inventare, ma dovrebbe essere chiaro che la casa comune della sinistra di governo risulterà credibile solo se sarà eretta sul rispetto pieno- e non generico- della storia delle sue anime passate (da quella comunista a quella del socialismo autonomista), oltre che sulla consapevolezza della diversità delle sue anime future (da quella laburista di stampo tradizionale a quella liberalriformista). Se dietro a questo errore di omissione, si nasconde l’incapacità di un gruppo dirigente di chiudere in maniera serena ed equilibrata i conti con le fratture che hanno attraversato la sinistra storica, lo scoglio non è di poco conto. A Torino, si è trovato il coraggio di affermare che “avevano ragione loro”. A Pesaro, sarebbe bello se qualcuno avesse l’impudenza di dire che tra quei “loro” figurano anche i nomi di Filippo Turati, Pietro Nenni, Giuseppe Saragat, Sandro Pertini e Bettino Craxi. Senza inutili abiure o spargimenti di cenere, ma con un semplice atto di onestà intellettuale che ponga fine a una guerra politica fratricida che ha già mietuto troppe vittime.