La politica ha le sue leggi, che non sono perfette ma hanno un qualche grado di prevedibilità (che non dovrebbe sfuggire a chi la fa come professione). Adesso, chi non ha saputo leggere quelle leggi in tempo cercherà di dirci che è colpa di qualcun altro: di Renzi, dei poteri forti, di Mattarella. No, è colpa degli errori di una classe dirigente che si è fatta fregare per cupidigia, perché pensava che si potesse tirare a campare senza rilanciare l’azione di governo con idee forti e figure autorevoli, sperando che i soldi europei bastassero magicamente a risolvere tutto.
Renzi voleva solo la testa di Conte, si dice. Tutto il resto era solo una scusa. E quindi? Renzi voleva far fuori Conte mentre il Partito democratico – per qualche ragione che la ragione non conosce – riteneva vitale evitarlo? C’erano solo due modi per impedirglielo. Il primo era trovare voti alternativi in Senato. Ci si è provato (malamente) e non ha funzionato. Il secondo era trovare un nuovo accordo di legislatura che contenesse segnali di discontinuità non formali, cioè non scritti soltanto in fumosi documenti programmatici.
E questa discontinuità, a sua volta, poteva assumere solo due forme: un governo molto simile al Conte bis ma senza Conte (come nel calcio quando si cambia l’allenatore anche se non è colpa dell’allenatore); varare un Conte ter con forti segnali di discontinuità nelle priorità dei dossier, nella struttura dei dicasteri e nelle figure chiamate a farne parte (e come sanno i presidenti delle società sportive, il calciomercato costa molto di più che mandare via l’allenatore). Tertium non datur. Invece, si è provato a confermare l’allenatore senza irrobustire la squadra. Non poteva funzionare. E non ha funzionato.
Tutto questo ha a che fare con errori basilari di tattica politica. Errori da cui usciamo – nel mezzo di una pandemia – solo grazie alla saggezza e al coraggio del Presidente Mattarella, che di fronte allo stallo della vecchia maggioranza ha tirato fuori dal cilindro la carta di Mario Draghi, invitando tutti alla responsabilità e ripetendo quello che tutti sapevano ma facevano finta di non sapere: che votare adesso, nelle condizioni in cui versa il Paese, non è un’opzione percorribile.
Questa ricostruzione non vuole rinvangare gli errori, ma evitare di ripeterli. Sul piano istituzionale. E sul piano politico. Partiamo dal piano istituzionale: adesso basta bandierine ideologiche e soprattutto basta personalismi, i partiti diano un contributo di idee e aiutino il Presidente Draghi a varare un governo autorevole col quale avviare un lavoro comune in Parlamento. L’interesse del Paese ci richiede questo, come hanno capito le parti sociali prima dei partiti.
Sul piano politico, smettiamola di fare i finti tonti. Gli errori da dilettanti ricordati sopra non nascono da incapacità, ma da una finalità considerata prioritaria dall’attuale gruppo dirigente del Partito democratico: fare un’alleanza strategica a quattro gambe tra Movimento Cinque Stelle, Partito democratico, Leu e centristi d’estrazione contiana. Il problema è che questa scelta sarebbe la fine del Partito democratico e meriterebbe almeno di essere discussa in un congresso. Per il momento, quindi, teniamo separata l’esigenza di avere un governo dalle scelte sull’identità del Partito democratico (che non possono essere prese a colpi di interviste sui giornali ma hanno bisogno, appunto, di un congresso).
Intendiamoci: io non sono contro le alleanze post-elettorali, tantomeno con i CinqueStelle o quello che diventeranno. Ma le alleanze che non funzionano sono quelle pensate come ammucchiate “contro” qualcun altro. Le alleanze che funzionano, invece, sono quelle che nascono dalla convergenza, faticosa e trasparente, tra identità distinte. Il Partito democratico, dopo un eccesso di appiattimento sui grillini, deve aprire una discussione profonda su cosa vuole essere. Deve tornare nei luoghi dei conflitti, assumere un’identità chiara, dettare l’agenda.
Non è con il populismo mite, l’antipolitica strisciante, il giustizialismo o lo statalismo all’amatriciana che supereremo la crisi d’identità dei progressisti. I governi del Presidente – per forza e per fortuna – sono solo parentesi temporanee. Se vogliamo costruire un’alternativa autonoma e credibile alla destra sovranista, non c’è un minuto da perdere. Ora è il tempo di un Partito democratico che riprende a fare il Partito democratico, la casa dei riformisti. Ora è il tempo di un sano orgoglio democratico.
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