Le nuove ragioni del socialismo

Partito Democratico, sfida programmatica come atto fondativo

Tommaso Nannicini
Democrazia/#partito democratico

Progetto Amato, lista unitaria, federazione riformista. La cronaca degli ultimi dieci anni è
piena di progetti politici capaci di suscitare speranze la cui dimensione si è rivelata seconda soltanto rispetto alle disillusioni che ne sono seguite. Prima di partire lancia in resta per una nuova giostra, forse, non sarebbe male chiedersi da cosa siano derivati fallimenti tanto clamorosi. Dalle oscure forze della reazione che tramavano nell’ombra? O anche da qualche errore dei suoi – più o meno sinceri – promotori? Temo che la seconda ipotesi non sia priva di fondamento. Troppo spesso sono state annunciate “svolte epocali” da parte di gruppi dirigenti non pronti a correrne fino in fondo tutti i rischi. A titolo d’esempio, mi limito a elencare quattro nodi non sciolti all’interno del campo riformista del centrosinistra, senza prendere di petto i quali difficilmente riusciremo a riposare sulla agognate sponde del partito democratico.

Primo esempio: l’assetto istituzionale non è una variabile indipendente rispetto ai
percorsi unitari. La giusta indignazione per il colpo di mano di Berlusconi sulla legge elettorale non ci esime dal porci una domanda: una volta al governo, da quale proposta riprenderemo il discorso? Dal ritorno al Mattarellum con i suoi governi tanto eterogenei quanto inefficaci? Per ridurre la frammentazione e il potere di ricatto delle estreme, le soluzioni tecniche non mancano (a partire dal doppio turno di collegio, fino a un proporzionale con sbarramento al 5% e un vincolo insormontabile per cui le forze al di sotto di tale soglia non possano accedere al premio di maggioranza che contribuiscono a formare), ma per farle passare serve un accordo bipartisan tra le forze politiche maggiori, scavalcando i veti dei piccoli partiti di entrambi i poli. Avrà Prodi, come leader del nascituro partito democratico, la forza di tentare questa strada?

Secondo esempio: le macerie lasciateci in eredità dal duello a sinistra tra comunisti e socialisti non si superano per mera rimozione. Le cose non dette, a volte, sono più illuminanti di mille parole. Nella sua appassionata difesa del binomio tra kennedismo e socialdemocrazia, Piero Fassino – sul Corsera del 20 ottobre – ha citato una nutrita pattuglia di esperienze europee, dal partito laburista norvegese a Mitterand. Curioso che proprio in Italia stia per nascere un’esperienza ancora più avanzata, visto che fra tanti illustri antesignani non figura alcunché legato al nostro paese. Naturalmente, Fassino non può citare il nuovo corso socialista di Craxi (e riflessioni che
anticiparono di quindici anni la Terza Via) perché un’enfasi di questo tipo risulterebbe a dir poco blasfema per gran parte del suo partito. Ma se – come scrive Michele Salvati sul Corsera del 21 ottobre – il partito democratico deve nascere per ricomporre “due fratture storiche che oggi non ha senso trascinarci appresso, l’antichissima frattura della questione cattolica” e “quella più recente dovuta al predominio del Partito comunista sulla sinistra italiana”, sarebbe il caso di affrontare meglio la seconda questione. In termini di mera cronaca politica, questo nodo è catturato dalla prospettiva di ritrovarci con un partito democratico che annovera tra i suoi fondatori Di Pietro e De Mita, ma non gli eredi dichiarati del PSI (per quanto spesso incapaci di guardare avanti, abbandonando sempre più esigue rendite di posizione).

Terzo esempio: aprirsi alla società e al merito nella selezione della classe politica. Come recita un detto inglese, “charity begins at home”. Per la serie: è inutile lanciarsi in appassionate prediche sulla solidarietà, se non si è capaci di mostrarla verso i propri cari. Il test della coerenza tra ciò che predichi e come ti comporti finisce per inchiodarti. Lo stesso vale per l’innovazione. È inutile predicare agli italiani la strada virtuosa verso il dinamismo e la meritorcrazia, se i propri comportamenti parlano d’altro. Senza bisogno di tornare ad alcuni eccessi “nuovisti” della stagione dei sindaci e dalla società civile, dovremmo riprendere il discorso sui canali di selezione dei politici. E su come garantire un qualche scambio (di andata e ritorno) tra attività politica e professioni esterne. Nessuno vuole che si scelga il personale politico sulla base del curriculum, ma piuttosto di chiedere ai tanti giovani che si interessano di politica di restare in qualche stanza di partito a presidiare il fortino (mentre i “grandi” si occupano delle istituzioni), rinunciando agli studi e a qualsiasi vera esperienza professionale, non sarebbe male spingerli verso strade più impegnative di rafforzamento personale, o metterli subito alla prova nel servire il proprio paese. Per giustificare il superamento delle fratture ricordate da Salvati, si cita spesso il fatto che le nuove generazioni si sono formate al di fuori di quegli schemi. Perché, allora, non chiamarle direttamente ad assumersi la responsabilità di tracciare strade nuove?

Quarto esempio: siamo sicuri che i nodi dell’innovazione programmatica non vadano sciolti prima della nascita del partito democratico? Lo scrive uno a cui spesso va stretta la casa politica in cui si trova. Uno che si iscriverebbe con entusiasmo al partito democratico a partire da
domani mattina. Uno, tuttavia, che comincia a pensare che non possiamo continuare a mettere il carro (il partito) davanti ai buoi (un vero svecchiamento delle nostre proposte). L’ultima esperienza di governo del centrosinistra si è conclusa male perché siamo stati “riformisti per forza”. O per forza o per amore, dice un vecchio e minaccioso adagio. In politica non è la stessa cosa. Al prossimo giro, o sapremo essere “riformisti per amore”, o il risultato sarà altrettanto deludente (indipendentemente dalle liste con cui ci presenteremo). E per essere riformisti per amore dobbiamo trovare il coraggio di tratteggiare a tinte forti le scelte necessarie per rimettere in moto gli italiani, snidando le rendite e premiando il merito. Anche qui gli esempi si sprecano.

Come non accorgersi, tanto per farne uno, che c’è un’incoerenza di fondo tra le ripetute concioni sull’agenda di Lisbona o sulla liberalizzazione delle professioni da una parte, e la pervicace ostilità alla direttiva Bolkenstein dall’altra? Durante il suo iter di discussione, sono già stati introdotti importanti cambiamenti per garantire il rispetto degli standard nazionali sul lavoro o per escludere servizi di interesse generale; altre modifiche migliorative possono essere pensate. Ma, detto questo, non si può prescindere dal fatto che una maggiore apertura del settore terziario è un prerequisito per il rilancio della crescita europea e per il finanziamento del nostro modello di stato sociale. È la strana alleanza tra no global e avvocati il nuovo patto riformista con cui si pensa di
rilanciare l’Italia? Quando discuteremo sul serio di questi temi e degli altri nodi programmatici che ci attendono (riforma universitaria che superi i veti del corporativismo; stato sociale che allarghi le opportunità; flessibilità del lavoro che non retroceda, ma sappia conciliarsi con nuove forme di tutela)? Solo dopo che la sfida programmatica sarà stata vinta, il processo di fusione delle forze riformiste sarà così naturale che neanche ci accorgeremo del giorno in cui abbiamo iniziato ad essere tutti iscritti al partito democratico. Quello vero.