Così come ogni guerra è “giusta” per chi la combatte, ogni spesa pubblica è “buona” per chi la chiede o la elargisce, ogni debito è buono per chi lo fa o per chi ne riceve i benefici immediati, spesso incurante dei costi futuri. È per questo che la distinzione tra spesa buona o cattiva, come ha scritto Veronica De Romanis su queste colonne, è a dir poco scivolosa. Ciò non ci esime, però, dalla fatica di separare il grano dalla pula, perché è pur vero che c’è spesa e spesa, debito e debito. Quota 100 non è Industria 4.0.
Una prima differenza attiene alla congiuntura: se vogliamo scongiurare una politica pro-ciclica che accentua le fluttuazioni della nostra economia, drogandola troppo se le cose vanno bene e spedendola dritta in recessione se vanno male, dobbiamo riconoscere che il debito può diventare “buono”, alla Mario Draghi, nei periodi di crisi. Una seconda differenza attiene alla struttura: se ammettiamo che non tutte le spese sono uguali, dobbiamo dedurne che alcune possono avere un effetto “moltiplicatore” sulla crescita economica, ripagandosi da sole, come le spese in istruzione, infrastrutture, investimenti produttivi, parità di genere. Perlomeno sul piano teorico.
Dopodiché, come ci insegna Yogi Berra, in teoria non c’è differenza tra teoria e pratica, in pratica c’è. Azzeccare i tempi delle politiche congiunturali non è semplice: le decisioni giuste rischiano di arrivare tardi. Lo stesso vale per la stima del moltiplicatore: chi decide se una spesa è produttiva? Per questo, è difficile applicare una regola aurea che permetta di violare le regole fiscali europee ai paesi che fanno investimenti. Alla fine, tutto rischia di diventare “investimento”, a colpi di trucchi contabili. Trucchi, tra l’altro, che piacciono sia ai fautori dell’austerità sia ai cultori della spesa facile.
Basta analizzare le relazioni tecniche della Ragioneria generale dello Stato alle leggi di bilancio, per accorgersi che la spesa previdenziale è sistematicamente sovrastimata, mentre quella per gli incentivi agli investimenti sottostimata. Col risultato che, a parità di miliardi di spesa pubblica, ai lavoratori e ai pensionati arriva di meno, alle imprese di più. Solo perché in alcune tecnostrutture è radicata l’idea – mai sottoposta a riprova – che gli investimenti sono spesa buona e le pensioni cattiva. Dall’altro lato della barricata, anche gli ultras della spesa facile si cibano di forzature. Si pensi a quota 100: una misura che ha favorito lavoratori maschi e con redditi alti, ma che è sempre stata giustificata parlando di categorie fragili come i lavoratori edili, che invece vi hanno fatto ricorso in minima parte per via di un requisito contributivo troppo alto. Ogni spesa è buona per chi la propone, anche a dispetto della realtà. Lo stesso vale oggi per quota 41.
Il vero salto di qualità, allora, sarebbe parlare meno del “quando” e del “cosa”. E più del “come”. Vuoi più soldi per la sanità? Per le imprese? Per l’edilizia? Spiegami come intendi usarli. Dimostrami che, dati gli obiettivi che politicamente ti sei dato e i comportamenti attesi di individui, famiglie e imprese, sarai in grado di spendere ragionevolmente quelle risorse. Tutte le spese sono scelte politiche, legittime in quanto tali, a patto che chi le fa non ne nasconda i veri motivi e gli effetti distributivi. Se avessimo parlato più del “come” e meno del “cosa”, non avremmo mai fatto un bonus fiscale al 110 percento.
Di fronte all’invecchiamento della popolazione, non potremo più permetterci un welfare bismarckiano, puramente contributivo, e avremo bisogno di misure sempre più universali finanziate con la fiscalità generale, da un reddito di base a una pensione di garanzia. Ma il punto è “come” farle, visto che introducono disincentivi al lavoro. Per esempio, legando prestazioni aggiuntive (e convenienti) ai contributi versanti. E contrastando l’evasione contributiva: oggi, diamo tutti i nostri dati a compagnie private per stare sui social media, perché non darli allo Stato, a certe condizioni, per ricevere servizi? Lo stesso vale per gli incentivi all’innovazione, che servono ma a patto di discutere su “come” introdurli per far sì che il progresso tecnologico valorizzi il lavoro umano, anziché sostituirlo.
Non abbiamo bisogno di tribunali di ultima istanza che ci dicano se una spesa è buona o cattiva. Ma di persone serie che, siano esse al governo o all’opposizione, ci spieghino come intendano realizzare al meglio le priorità politiche che propongono. È questa la regola aurea di politica economica che ancora ci manca.
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