Secondo alcune teorie sul “populismo”, la sfiducia degli elettori verso la politica tradizionale mette in discussione il principio cardine della democrazia rappresentativa per cui i cittadini delegano ai politici alcune scelte di fondo durante il loro mandato. Ed è lì che si inserisce la politica populista, prendendo impegni rigidi (commitments) sulle cose da fare. Taglieremo i parlamentari. Daremo a tutti un reddito di cittadinanza. Aboliremo la Fornero e manderemo tutti in pensione prima. Faremo il blocco navale, così nessuno cucinerà curry nei pianerottoli dei vostri condomini. Quello che queste teorie non dicono, però, è cosa succede quando questi impegni si sciolgono come neve al sole. La fiducia verso la politica tradizionale risale? Oppure arrivano nuovi populisti con altre promesse, non si sa perché più credibili di quelle che si sono appena rivelate illusorie?
In attesa di conoscere la risposta, non c’è dubbio che i populisti di casa nostra abbiano perso ogni credibilità in materia di pensioni. Non c’è politica pubblica dove il divario tra le loro promesse e la realtà sia altrettanto gigante. La storia degli interventi pensionistici degli ultimi decenni, tranne poche eccezioni, può essere sintetizzata come un pendolo tra riforme “rigoriste” (a caccia di soldi) e riforme “clientelari” (a caccia di voti). E la destra, Lega in testa, si è sempre buttata come un avvoltoio sulla seconda sponda, quella dove c’erano voti da blandire. Col risultato finale che il nostro sistema pensionistico non è equo né tra generazioni (visto che i costi della sua sostenibilità sono stati scaricati sui più giovani), né all’interno delle generazioni (visto che i più fragili sono lasciati soli di fronte a un’età di pensionamento che aumenta anche quando non hai un lavoro o quel lavoro diventa troppo faticoso). L’ultima legge di bilancio si inserisce nel solco. Ma a sorpresa (visto il commitment di Lega e compagnia sulle pensioni), nel pendolo tra esigenze di cassa e spese facili a fini elettorali, fa prevalere le prime, con buona pace delle promesse. Fa prevalere l’esigenza di far cassa. Anche troppo, se si pensa che ci sono esigenze sociali, dagli anziani in difficoltà ai giovani senza contributi continuativi, che richiederebbero interventi forti.
L’ennesima quota, francamente, ce la potevamo risparmiare. Non è che una misura ingiusta come quota 100 diventa giusta se la trasformi in versione bonsai, tagliuzzandola di anno in anno fino ad arrivare a questa nuova versione di quota 103, ulteriormente ridotta nella sua generosità per via dell’estensione del ricalcolo contributivo. Le poche risorse disponibili dovrebbero essere usate per aiutare chi è in difficoltà di fronte all’allungamento dell’età pensionabile, come chi non ha un lavoro, ha una disabilità o si prende cura di un familiare, non chi fa un lavoro per niente gravoso e ha una storia contributiva robusta, che non gli fa temere niente per la pensione (e purtroppo sono questi ultimi i tipici beneficiari di quota 103).
In verità, altre due misure contenute in legge di bilancio sembrano andare in questa direzione, quella giusta, ma lo fanno senza metterci risorse adeguate. La prima è la cancellazione del vincolo di 1,5 volte la pensione sociale per accedere alla pensione di vecchiaia (con quel vincolo, infatti, qualcuno rischiava di non poter andare in pensione fino a 71 anni). Ora, però, per completare questo intervento servirebbe una misura per tutelare i soggetti deboli, soprattutto giovani, che col contributivo rischiano di avere una pensione da fame. La seconda misura è il rifinanziamento dell’Ape sociale (la misura introdotta dal governo Renzi per le categorie svantaggiate, che dimostra una formidabile resilienza venendo rifinanziata con ogni legge di bilancio, a prescindere dalle maggioranze, perché va incontro a una domanda di equità). Anche qui però le risorse sono poche. Per tutelare i soggetti fragili, servirebbe un’Ape sociale più estesa e ben finanziata.
Insomma, quando si parla di pensioni, dal pendolo tra rigorismo e clientelismo – e dalla guerra tra cacciatori di soldi e cacciatori di voti – non usciremo mai, a meno che non cambi il modo in cui ne parliamo. In un libro edito dal Mulino che ho curato insieme a Michele Faioli (“L’uguaglianza è una cosa seria. Come riformare pensioni e welfare”), cerchiamo di farlo cambiando prospettiva e parole d’ordine. Non perché sostenibilità finanziaria, flessibilità in uscita e consenso elettorale non siano importanti. Ma perché sono strumenti, non obiettivi. Una riforma in grado di consegnarci pensioni sostenibili perché giuste dovrebbe basarsi su altro: su un concetto di equità non solo attuariale ma sociale, di “giustizia previdenziale”. E dovrebbe farlo all’interno di un welfare universalistico che, a fronte del progresso tecnologico, protegga tutti e tutte: dipendenti e autonomi, disoccupati e precari, giovani e adulti.
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