La bozza di legge elettorale concordata tra Partito democratico e Forza Italia, il cosiddetto Italicum, prevede un riparto dei seggi tra partiti su base proporzionale a livello nazionale. Gli effetti proporzionali di questa regola sono corretti da un premio di maggioranza (a doppio turno) per la coalizione vincente e da soglie di sbarramento per i singoli partiti.
Una volta assegnati i seggi,gli eletti all’interno di ogni partito sono scelti sulla base dei voti ottenuti da quel partito in collegi plurinominali. Nella scheda, gli elettori troveranno liste di partito con accanto i nomi dei candidati nel loro collegio. È importante sottolineare che i voti raccolti dai partiti nei collegi non serviranno per attribuire i seggi a quel livello (come in Spagna), ma soltanto per selezionare gli eletti all’interno di ogni lista. È per questo motivo che l’ampiezza del collegio, cioè il numero di candidati, non è poi così cruciale. In Germania, per esempio, i collegi uninominali (con un candidato per partito) sono usati solo per selezionare gli eletti, ma il riparto dei seggi è proporzionale. Lo stesso vale per la vecchia legge elettorale che noi italiani abbiamo usato per le provinciali (legge 81/1993). Si tratta di sistemi molto diversi da quelli (maggioritari) in cui i collegi uninominali sono usati per ripartire i seggi: negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, chi arriva primo in ogni collegio risulta eletto e fine della storia.
Rispetto all’Italicum, sorgono due quesiti. Primo: perché Pd e Fi hanno preferito collegi plurinominali a quelli uninominali? Secondo: quanti collegi si dovrebbero prevedere e come dovrebbero essere disegnati?
Rispetto alla prima domanda, di solito si sente rispondere che Fi non ama i collegi uninominali, perché i suoi candidati sono meno competitivi in scontri individuali. Ma l’argomento ha senso se i collegi sono usati per assegnare i seggi (come col Mattarellum), meno se servono solo a determinare una graduatoria interna al partito (come alle provinciali). In verità, se i collegi uninominali fossero innestati nell’Italicum, entrambi i partiti che hanno siglato l’accordo se ne avvantaggerebbero. Per tre motivi.
1) Assumiamo che uno dei due partiti sia unicamente interessato a prevedere chi finirà in Parlamento, così che il leader (o chi per lui) possa “nominare” gli eletti. All’interno dell’Italicum, i collegi uninominali funzionano meglio di quelli plurinominali, perché la graduatoria interna al partito è più semplice da prevedere (al netto di un margine d’incertezza) se si deve tenere conto di un solo candidato per collegio.
2) Assumiamo che uno dei due partiti sia invece interessato a usare le primarie per selezionare i propri candidati. Le primarie sono uno strumento che funziona bene per cariche monocratiche, e concentrarsi sulla scelta di un solo candidato per collegio le renderebbe più efficaci.
3) L’introduzione dei collegi uninominali sarebbe un’ottima mossa di marketing, perché toglierebbe l’argomento “liste bloccate” agli oppositori dell’Italicum.
Si obietterà: che bella innovazione, se tutto si riduce a un’operazione di maquillage che lascia il potere nelle mani delle segreterie di partito. Ma l’opzione di fare “porcate” c’è sempre (e le preferenze non sono certo la cura del male). I collegi uninominali, però, renderebbero il legame tra candidati e territorio più forte. E i partiti davvero interessati a migliorare la selezione della classe politica potrebbero usare le primarie in modo più efficace. Se lo facessero con successo, l’esempio potrebbe diventare contagioso, costringendo anche altri partiti a usarle. Certo, la soluzione ottimale resta quella di collegi uninominali “veri”, come nel sistema maggioritario francese . Ma questa opzione, piaccia o no, non è sul tappeto.
Alla luce di questi argomenti, non si capisce perché Pd e Fi non tirino fuori dal cilindro un emendamento con collegi uninominali. Le uniche contro obiezioni che mi vengono in mente sono queste.
1) Forza Italia teme quello che in scienza politica si chiama “effetto contagio” all’interno di sistemi elettorali misti, per cui la presenza di competizioni simil-maggioritarie potrebbe servire da traino al Pd. Ma non è detto che l’effetto sia empiricamente rilevante, all’interno di una legge che resterebbe incentrata sui partiti, per via del premio di maggioranza e del riparto proporzionale dei seggi.
2) Il compromesso ha finito per convergere sui collegi plurinominali, quando ancora si pensava di usarli per ripartire i seggi (come in Spagna). Dopodiché, sono rimasti per inerzia. Ma questo vorrebbe dire che Pd e Fi non sono razionali. E, rispetto a una materia che li tocca da vicino, si fa fatica a crederlo.
3) Pd e Fi si sono posti il problema, ma temono che gli elettori non capirebbero un sistema in cui il primo classificato in un collegio non viene eletto (perché ha meno voti dei suoi colleghi di partito in altri collegi) mentre il secondo viene eletto (perché ne ha di più). Ma gli italiani hanno già votato con questo sistema per le provinciali. E le stesse “stranezze” avverrebbero con i collegi plurinominali. (1)
Francamente, sia per il Pd sia per Fi, i benefici d’innestare collegi uninominali nell’impianto dell’Italicum sembrano maggiori dei costi. E, rispetto alla bozza d’accordo, lo stesso vale per i cittadini-elettori.
Plurinominali o uninominali che siano, i collegi vanno disegnati. Per prima cosa, occorre fissarne il numero. Nei 148 collegi di cui si parla per la Camera, in media, gli elettori si troverebbero quattro o cinque nomi per lista. Se si decide di restare sui plurinominali, serve uno sforzo di fantasia “geografica” per disegnarne tra 160 e 180, in modo che nessun elettore si trovi più di quattro candidati per lista.
Poi,una volta deciso il numero dei collegi, si tratta di definirne la composizione geografica. Alcuni commentatori hanno rispolverato il termine di “gerrymandering”: la manipolazione dei confini geografici dei collegi che nei paesi anglosassoni è usata dai partiti per assicurarsi seggi sicuri. Ma il termine è mal posto nel caso dell’Italicum, perché – di nuovo – i collegi non servono ad assegnare i seggi come negli Usa o in Gran Bretagna . (2) Gli incentivi a manipolarli sono più blandi e diversi rispetto al maggioritario.
Si consideri un esempio. Il partito A ha il 60 per cento dei voti, il partito B il 40 per cento. Il Parlamento è composto da dieci seggi. Con l’uninominale maggioritario stile Usa, il partito A può vincere in tutti e dieci i collegi (se ognuno è un campione casuale della popolazione). Se invece la concentrazione territoriale è forte, A può prendere sei seggi (se il 60 per cento dei suoi votanti vivono tutti lì) e B 4 seggi (idem), come col proporzionale. I due partiti hanno nello stesso tempo un conflitto d’interessi (ognuno vuole disegnare i collegi in modo da massimizzare i propri seggi) e un incentivo a colludere (entrambi preferiscono collegi “concentrati” il cui esito è facile da prevedere in anticipo). Passiamo, invece, all’Italicum. Qui, il conflitto d’interessi non esiste, perché il riparto dei seggi è proporzionale: A ne prende sei e B quattro. Entrambi, però, hanno un incentivo a colludere: se i collegi sono concentrati, possono prevedere con esattezza chi verrà eletto e dove. Per questo, vorranno disegnarli in modo che ognuno contenga solo gli zoccoli duri dei propri partiti.
Per lo stesso motivo, in un sistema di questo tipo, il disegno dei collegi dovrebbe essere tolto dalle mani dalla politica. Altro che ministero dell’Interno: senza allungare troppo i tempi, si potrebbe istituire una commissione di esperti di fama internazionale (meglio se stranieri), incaricati di disegnare i collegi in modo da evitare distorsioni politiche. La California l’ha fatto negli ultimi anni. E non è un caso se la scena politica di quello Stato sia diventata velocemente un esempio di successo.
Articolo tratto da lavoce.info
(1) Per limitare “stranezze” di questo tipo, senza arrivare all’estremo di prevedere un numero di parlamentari variabile come in Germania (che usa un 50 per cento di collegi uninominali e un 50 per cento di liste bloccate), si potrebbe stabilire un numero di collegi inferiore al numero dei parlamentari. Per esempio, se i collegi fossero pari al 75 per cento degli eletti, i casi di candidati vincenti che poi non risultano eletti sarebbero ridotti. Il costo è che un partito non potrebbe avere più del 75 per cento dei parlamentari anche se prendesse più del 75 per cento dei voti, ma si tratta di un caso alquanto improbabile e il costo sarebbe comunque nullo perché quel partito (bulgaro) manterrebbe comunque la maggioranza dei due terzi.
(2) Con Vincenzo Galasso, in un studio scientifico e in una serie di articoli per lavoce.info, ci siamo occupati spesso di come disegnare i collegi in maniera ottimale dal punto di vista dei cittadini-elettori. Per esempio, aumentando il livello della competizione politica in ogni collegio. Ma l’ottica era quella di un sistema maggioritario in cui il candidato vincente viene eletto in Parlamento.
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