I barbari stanno per essere scacciati? Leggendo certi giornali e ascoltando certe trasmissioni, pare di sì. Finalmente è nata “l’alternativa culturale a un sistema di potere ventennale”, a una “visione mercificata delle relazioni umane” (Gad Lerner, GL). È la vittoria dei circoli Arci e dei centri sociali, “della rete dell’associazionismo popolare socialista, comunista, cattolico, sessantottino, ramificata lungo più di un secolo nei quartieri cittadini” (GL). È il coronamento della resistenza ostinata degli italiani a una “diseducazione di massa” della destra e delle sue televisioni commerciali (Adriano Prosperi). Il vento è cambiato. Prova ne è, incredibile ma vero, che Mediaset ha annullato il programma estivo per la selezione delle veline (come ci comunica con tono pensoso sempre l’incontenibile GL).
È la storia delle due Italie. Quella buona, che, appena appaiono le veline sul piccolo schermo, spenge tutto e acciuffa un libro di Bertolt Brecht. E quella cattiva, lobotomizzata dalle tv commerciali e dalle sirene dell’egoismo e dell’interesse individuale. Ma questa volta il risveglio morale e culturale degli italiani, ci viene spiegato, ha una chiara impronta ideologica. Anche a causa della Grande Crisi (le maiuscole sono d’obbligo) del capitalismo liberista, i temi del sociale, dell’uguaglianza, del lavoro come diritto, del nucleare, dell’acqua sono il cemento di un nuovo movimentismo dal basso che sta scardinando il paese.
Se questa lettura del presente è corretta, il corollario è semplice. C’è solo una linea politica vincente per il Pd. Quella del surfista. Cavalcare l’onda e aspettare che travolga il centrodestra. Fare campagna elettorale per referendum che hanno un impianto culturale opposto a quello dei governi di centrosinistra negli anni ’90. Chiedere quotidianamente le dimissioni di Berlusconi, senza concentrarsi troppo sulle riforme che potrebbero dare una scossa al paese. Organizzare conferenze programmatiche che strizzano l’occhio al supposto spirito dei tempi e ai richiami della foresta ideologica, alle rassicuranti certezze del secolo socialdemocratico. Cavalcare tutte le proteste che si muovono nella società italiana, dall’università al lavoro precario, senza preoccuparsi di selezionare i contenuti di quelle stesse proteste: distinguendo quelli che aggraverebbero i problemi dell’Italia da quelli che invece li risolverebbero. Tenere le mani libere sulla leadership fino all’agognata spallata finale.
Ma c’è un’altra lettura possibile delle recenti elezioni amministrative. Una lettura che parla di un elettorato stanco e in cerca di alternative concrete per affrontare i nodi che la classe politica della Seconda Repubblica non ha saputo sciogliere. Un elettorato mobile e de-ideologizzato. Come i milanesi che non si sono fatti abbindolare da messaggi negativi, e hanno manifestato tutto il loro scontento verso un’amministrazione comunale lontana dai cittadini e dai loro problemi. Come i napoletani che hanno voltato le spalle sia al malgoverno del centrosinistra sia alle promesse non mantenute di Berlusconi. Un elettorato che magari farà i suoi errori, ma che non ha più voglia di firmare cambiali in bianco per spirito di appartenenza.
Se questa lettura del voto ha una qualche attinenza con la realtà, ci vorrebbe un’altra linea politica per il Pd. Quella del sub riformista. Che s’immerge in profondità per capire il paese, quello vero, e riemerge con soluzioni innovative, dopo un lavoro lento e pieno di amore. Fuor di metafora, una linea di questo tipo richiederebbe, per dirla con Vittorio Foa, una “mossa del cavallo”. Il Pd dovrebbe farsi subito promotore delle primarie per la scelta del candidato premier nel 2013 (disinteressandosi della data del voto, perché quando ci sono leadership e messaggio, si può votare in qualsiasi momento). Con chi ci sta fin da ora, sulla base dell’impegno comune a rispettare il verdetto delle primarie e rendere facile il lavoro di chi vincerà. Lavoro che dovrebbe essere quello di costruire, in maniera credibile, un insieme di scelte (e una classe dirigente chiamata a realizzarle) capaci di affrontare i problemi di un paese che non cresce. Con uno o, meglio, due anni di tempo, un candidato legittimato da questo processo potrebbe rappresentare un’alternativa concreta e credibile per un elettorato scontento, e anche per quelle forze politiche che dovessero decidere di non partecipare alle primarie in un primo momento. (Non si dimentichi che la candidatura di Pisapia a Milano è partita da lontano, visto che è stato il primo dei candidati a scendere in campo e si è rafforzato nel dialogo costante con la città, non limitandosi a cavalcare il malcontento ma raffigurando un’alternativa concreta, per le proposte ma soprattutto per la sua credibilità e le sue caratteristiche.)
La speranza è che da un processo di questo tipo possa uscire vincente un messaggio riformista fatto di selezione meritocratica (sia nel pubblico sia nel privato) e di apertura (dei mercati ma, per esempio, anche dei flussi migratori); un messaggio capace di costruire una nuova alleanza tra impegno, merito e bisogno nel nostro paese. Ma a quel punto che vinca pure il migliore. Perché a vincere sarebbe comunque un’idea di politica lontana dai tatticismi e dalle scelte politiche dettate dalle convenienze di breve periodo. Una politica protesa verso i problemi degli italiani e il loro diritto alla ricerca della felicità.
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