Il 17 marzo l’Italia celebra la festa dell’unità nazionale, con un corollario di polemiche sui costi che la sua istituzione comporterebbe. Ma una stima mostra che se è vero che le ore lavorate annue rispondono al numero di feste effettive, l’effetto è minore di quanto ci si aspetterebbe: un giorno di festa in più si traduce in una riduzione di 2,5 ore lavorate all’anno. Invece, la correlazione tra feste effettive e produzione industriale non è statisticamente diversa da zero. I benefici di una festa che potrebbe contribuire a cementare un’idea comune di futuro.
Ai cultori delle barzellette sul colmo dei colmi, in voga qualche decennio fa, avrebbe fatto piacere conoscere la storia di un paese in cui politici, imprenditori, sindacalisti e intellettuali si dividono su un giorno di festa proclamato per celebrare il 150esimo anniversario dell’unità nazionale. In verità, il tema del contendere non sembra riguardare l’importanza della ricorrenza. Ma i costi associati alla sua istituzione, anche per un solo anno, perché la strana festività in affitto cadrà di giovedì, facendo perdere un giorno lavorativo a un sistema paese già gravato dalla crisi internazionale.
LA POLEMICA
Sono stati gli industriali e la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia a lanciare l’allarme sui costi della festività del 17 marzo 2011, istituita per celebrare la proclamazione del Regno d’Italia nel 1861. Dopo un rincorrersi di polemiche e controproposte, inclusa quella di celebrare la ricorrenza andando a lavorare, il governo ha varato la festa per decreto, sopportando la rumorosa contrarietà dei ministri leghisti. L’argomento sui costi economici è semplice: se le imprese non possono utilizzare la loro manodopera per un giorno, che dovrà comunque essere retribuito, una parte della produzione andrà persa. Da un punto di vista monetario, non c’è dubbio che ci sia un aggravio dei costi per le imprese. Ma, tenendo ferme leggi dello Stato e disposizioni orarie dei contratti collettivi, lo stesso avviene per i lavoratori quando alcune festività cadono di sabato o domenica: in quell’anno, si lavora di più a parità di retribuzione. Si tratta di fluttuazioni facilmente riassorbibili.
Non convince del tutto, infatti, che un giorno di festa in più si traduca irrimediabilmente in un calo della produzione industriale. Mario Deaglio su La Stampa del 7 febbraio ha stimato che il costo di un giorno perso per imprese che possono contare tra i 200 e i 250 giorni di produzione in un anno oscilla tra lo 0,4 per cento (=1/250) e lo 0,5 per cento (=1/200) della produzione totale. La stima di massima, pur avendo il fascino di una disarmante semplicità, non tiene conto del fatto che le imprese non sono passive trasformatrici di una quantità data di fattori produttivi in un certo ammontare di prodotto. È difficile pensare che lascino inevasi degli ordini solo perché c’è da celebrare una nuova festa. È molto più probabile che ritmi e processi lavorativi finiscano per essere riaggiustati nel corso dell’anno in modo da fronteggiare comunque la domanda di mercato.
I COSTI (ATTESI) DI UNA FESTA
Forse, esiste un modo per capire se sia più vicina alla realtà l’ipotesi della perdita secca o quella dell’aggiustamento nel corso dell’anno. Di anno in anno, infatti, esiste una naturale (e casuale) fluttuazione nel numero di feste effettive, dettata dal fatto che alcune festività stabilite per legge cadono di sabato o domenica. Sfruttando questa variazione casuale, si può cercare di stimare se esista una correlazione negativa tra l’avere un giorno di festa in più e l’ammontare di quanto si produce annualmente.
Prima della riforma del 1977, in Italia c’erano sedici festività all’anno, a cui si aggiungevano due-tre solennità civili. Dopo il 1977, le festività hanno oscillato da un minimo di dieci al numero attuale di dodici. (1) Partendo da questi dati, ho costruito la serie storica dal 1950 al 2010 delle feste effettive (il cui numero è dato dalla differenza tra le feste stabilite dalla legge e quelle che cadono di sabato o domenica). A parità di festività ufficiali, la variazione nell’indice è quindi data dal semplice fatto che alcune feste possono cadere nel weekend, vanificandone l’effetto sulle ore di lavoro.
Ho poi guardato alla correlazione tra l’indice delle feste effettive da una parte, e le ore lavorate, gli indici della produzione industriale e manifatturiera dall’altra (fonte: Ocse), controllando per il numero di feste stabilite dalla legge e per gli effetti del ciclo economico.(2) I risultati sono facili da sintetizzare. Le ore lavorate annue rispondono al numero di feste effettive, ma l’effetto è minore di quanto ci si aspetterebbe meccanicamente. Un giorno di festa in più si traduce in una riduzione di 2,5 ore lavorate all’anno, cioè una riduzione pari allo 0,1 per cento e non all’atteso 0,4-0,5 per cento.
La correlazione tra feste effettive e produzione industriale o manifatturiera, invece, non è statisticamente diversa da zero. Non sembra esserci un impatto di rilievo del numero di festività che cadono di sabato o domenica sulla produzione annua. Addirittura, dopo il 1977, sembra esserci una correlazione positiva tra feste effettive e livelli di produzione industriale: un risultato difficile da spiegare, che potrebbe nascere dalla volatilità di dati raccolti solo per una prima stima approssimativa. In ogni caso, non esiste evidenza empirica a favore dell’ipotesi della perdita secca associata a un giorno di festa in più. (3)
Certo, esiste un’obiezione a questo test: nel caso del 17 marzo, il problema è che la festa è stata istituita dopo molte incertezze e le imprese non hanno avuto il tempo di programmare i propri ritmi di produzione. Ma questo avrebbe dovuto spingere chi le rappresentava a non alimentare polemiche e a chiedere che si decidesse sull’argomento senza tornarci sopra. Insomma, a conti fatti, i costi della festa per l’Unità nazionale non appaiono enormi e saranno probabilmente riassorbiti nel corso dell’anno.
I BENEFICI (POTENZIALI) DI UNA FESTA
Ma anche se i costi non sono grandi come paventato da alcuni, quali benefici possiamo aspettarci da una ricorrenza del genere? Per rispondere, può essere utile gettare lo sguardo oltre l’Atlantico. Due economisti, Andreas Madestam dell’università Bocconi e David Yanagizawa Drott dell’università di Harvard, hanno condotto uno studio empirico molto interessante sugli effetti di una festività come il 4 luglio negli Usa. I loro risultati mostrano che, se un americano medio tra i 3 e i 18 anni è stato costretto a non festeggiare in pubblico (probabilmente insieme alla propria famiglia) la festa del 4 luglio a causa di forti (e casuali) precipitazioni piovose, allora, quasi trenta anni dopo, quello stesso americano ha una probabilità minore di partecipare alla vita politica e civile del suo paese. In particolare, un 4 luglio festeggiato in più durante l’infanzia o l’adolescenza si traduce in un aumento dell’8-9 per cento nella probabilità di votare alle elezioni. Insomma, la presenza di riti e celebrazioni che cementano il tessuto civile favorisce la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica.
Certamente, è impossibile paragonare una festa così sentita dagli americani come il 4 luglio con una festività (in affitto) come il 17 marzo 2011 da noi. L’Italia è un paese in cui tutto è fonte di divisione, a partire dalla ricostruzione del proprio passato. Ma anche gli Stati Uniti hanno un passato condiviso più nelle celebrazioni che negli aspri risvolti della loro storia. Neanche un mese dopo la proclamazione del Regno d’Italia, gli Usa entravano in una guerra civile che avrebbe causato più di mezzo milione di morti. Ancora mezzo secolo fa, una parte importante della popolazione non poteva frequentare certe scuole o prendere certi autobus. Per non parlare delle ondate migratorie di ultima generazione che rendono difficile parlare di passato comune. Negli Usa, tuttavia, l’unità nazionale è cementata da un’idea comune di futuro, da un insieme di valori che fanno da cornice al compimento del desiderio di felicità di ciascuno. Le ricostruzioni storiche e le celebrazioni sono funzionali a questa idea: non la guidano, ma ne sono guidate. Ecco forse un tema su cui avremmo dovuto riflettere con più calma in vista del 17 marzo prossimo venturo: come renderlo un elemento di socialità in cui gli italiani potessero maturare (anche inconsciamente) un senso di comunità che sa guardare in avanti.
Raccolta dati a cura di Federico Cilauro e Francesco Esposito
(1) Per la legislazione pre-riforma del 1977 (contenuta nella legge 5 marzo 1977, n. 54), si veda la legge 27 maggio 1949, n. 260. Per le variazioni nelle festività post-riforma del 1977, si vedano il Dpr 28 dicembre 1985, n. 792, e la legge 22 maggio 1986, n. 200.
(2) Per controllare per i fattori ciclici legati al passare del tempo, ho usato due diverse specificazioni: (a) una in differenze prime (in cui si spiega la variazione nella produzione dall’anno precedente a quello attuale in funzione della stessa variazione nell’indice di feste effettive); (b) una che controlla per un polinomio di terzo grado del tempo. Entrambe le specificazioni producono risultati simili. Inoltre, usare il Pill al posto della produzione industriale o manifatturiera produce correlazioni ancora meno significative con l’indice delle feste effettive: risultato che non sorprende visto che il Pil include anche lo stipendio dei dipendenti pubblici, che resta immutato al variare delle festività.
(3) Ho ripetuto lo stesso esercizio sfruttando gli anni bisestili (che regalano un giorno di lavoro in più all’anno) e la variabilità dovuta al fatto che il 29 febbraio può cadere di sabato o domenica. Di nuovo, non sembra esserci nessuna correlazione significativa tra queste variazioni (casuali) nei giorni di lavoro e la produzione industriale o manifatturiera annua.