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Quel Monti che ti aspetti

Tommaso Nannicini
Democrazia/#politica

Secondo alcuni, il problema degli italiani è antropologico. Pizza, mandolino, familismo amorale, ricerca delle rendite e quieto vivere: tutto rientra in un DNA che frena le riforme. Tanto vale rassegnarsi. Un sano ottimismo della ragione, tuttavia, può smentire questa visione. È vero che il passato e la cultura hanno un peso molto forte; come è vero che la storia economica è piena di paesi che si sono condannati al declino per l’incapacità di abbandonare abitudini trasformatesi in vizi (leggi: rendite). Ma anche la cultura evolve e storie di successo ci raccontano di scatti collettivi che hanno scaraventato paesi da circoli viziosi verso nuove traiettorie di sviluppo.

Come farlo senza aspettare secoli? Facile (a dirsi): cambiando le aspettative. A un certo punto, come per magia, energie che covano sotto la cenere, ma faticano a fare massa critica, cominciano a crederci, si risvegliano dal torpore e intraprendono strade meno battute, finché tutto il paese non finisce per fare lo stesso. Oggi, esistono italiani che hanno voglia di crescere e rischiare, che subiscono sulle proprie spalle i costi del mancato dinamismo, che vorrebbero fare di più per le proprie famiglie. Ma non credono che sia fattibile. Temono che, abbandonando la strada vecchia per la nuova, faranno una brutta fine. Perché nessuno li aiuterà. Perché saranno sempre i soliti a ricevere più sicurezza e più risorse. Il segreto sta nel cambiare le aspettative di questi italiani. È delle loro energie che abbiamo bisogno.

Il successo della fase zero del governo Monti si spiega proprio con le aspettative. Una riforma delle pensioni chiara e incisiva, la dolorosa decisione di aggredire l’emergenza finanziaria con aumenti delle tasse, il cambiamento nell’atteggiamento istituzionale e nella cultura di governo: tutto questo ha cambiato le aspettative dei mercati e ci ha salvati dal disastro. E se a un certo punto ci siamo ritrovati in tasca più scontrini del solito non è stato per un cambio delle aspettative degli italiani?

Anche i ritardi della fase uno del governo si spiegano con le aspettative. Il caso del lavoro è esemplare. Una riforma che ruota intorno alle interpretazioni di una formula bizantina come “manifesta insussistenza”, demandandone l’interpretazione autentica alla giurisprudenza, rinuncia in partenza a modificare le aspettative. Se la formula significa licenziamenti facili nelle conferenze stampa internazionali, ma difesa dell’art.18 su alcuni giornali; se gli imprenditori vi leggono una cosa e i sindacati un’altra: allora, per definizione, le aspettative non cambiano. Serviva più coraggio. Riallocazioni per favorire la produttività, nuovi investimenti, cultura della mobilità che si affida a nuove tutele: purtroppo, saranno le cose di cui il paese ha bisogno a segnalarsi per manifesta insussistenza. Ed ecco che i mercati cominciano a fare i capricci. Ecco che gli italiani smettono di credere che il cammino delle riforme sia irreversibile.

A questo punto, la morale della storia è chiara. Il destino della fase due del governo si giocherà sulle aspettative. Nel tempo che resta, non si può fare tutto. Ma si può spianare la strada a chi verrà dopo. Con due priorità. Sul versante macro: riduzione della spesa e conseguente alleggerimento del carico fiscale su lavoro e imprese. La riduzione deve essere incisiva per cambiare le aspettative, altrimenti meglio lasciar perdere: pari, per intenderci, alla porzione di PIL catturata dai recenti aumenti di imposizione fiscale su immobili e affini. Sul versante micro: creare una seria infrastruttura di valutazione in tutto il settore pubblico, scuola e università comprese. Perché sulla produttività del pubblico e sugli investimenti in capitale umano ci giochiamo il nostro futuro, ma prima dobbiamo cambiare gli incentivi di chi ci lavora.

Queste scelte non sono neutre: colpiscono interessi legittimi e radicati. Non è facile prenderle senza un mandato politico. Ma consapevolezza dell’emergenza e chiarezza della visione possono convincere gli italiani. Creando un capitale politico che sarà poi compito di qualcun altro investire su un progetto di cambiamento di lunga lena. Ci sono gli spazi per farlo. A un governo tecnico in scadenza non si possono chiedere miracoli. Ma qualcosa in più sì.

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