La Stampa

Noi, orfani della matita di Staino cantore dei sogni degli ultimi

Tommaso Nannicini
Democrazia/#Sergio staino#Staino

Un anno fa ci lasciava Sergio Staino, che è stato tante cose: intellettuale, vignettista, giornalista, regista, attivista, direttore artistico. E di cose ne ha fatte tante, dall’Unità alla Stampa, da Tango alla Rai, dal Teatro Puccini al Premio Tenco. Coscienza del nostro Paese e della sinistra, ha sempre omaggiato entrambe con una critica sferzante. Era un eretico amato anche dagli ortodossi. Una forte individualità capace di unire un collettivo, grazie al suo carisma e a un entusiasmo contagioso. Chi ha avuto la fortuna di conoscerlo gli voleva bene non solo per il calore del suo sorriso e i guizzi del suo pensiero, ma per il modo in cui riusciva a liberarti da stanchezze, delusioni e paure, spingendoti all’impegno, qualunque fosse il campo in cui venisse richiesto. Qualsiasi cosa ti proponesse, arrivava sempre con il messaggio: dai, diamoci da fare, il cambiamento ha bisogno di noi.

L’impegno civile e politico per Staino non era attivismo fine a sé stesso, né peggio ancora voglia di esserci per forza o mettersi in mostra. Era vita. Che cosa significhi ce lo spiega Édouard Louis in un libro forte come un pugno sullo stomaco e dolce come una carezza: “Chi ha ucciso mio padre” (Bompiani). L’autore ricorda una giornata di rara e spensierata allegria passata al mare, verso cui tutta la famiglia si era lanciata, in sei su una macchina per cinque, per festeggiare la decisione del governo di aumentare di cento euro gli aiuti per il nuovo anno scolastico. Chiosa Louis: “Non ho mai visto le famiglie che hanno tutto andare a vedere il mare per festeggiare una decisione politica, perché la politica a loro non cambia quasi nulla. Me ne sono accorto quando sono andato a vivere a Parigi, lontano da te: i dominanti possono lamentarsi di un governo di sinistra, possono lamentarsi di un governo di destra, ma un governo non gli causa mai problemi di digestione, un governo non gli spacca la schiena, un governo non li spinge verso il mare. La politica non cambia la loro vita, o così poco. Anche questo è strano, fanno la politica e la politica non ha quasi nessun effetto sulla loro vita. Per i dominanti la politica è nella maggior parte dei casi una questione estetica: un modo di pensarsi, un modo di vedere il mondo, di costruire la propria persona. Per noi era questione di vita o di morte”.

Quando ho letto questo passaggio, che arriva dritto al cuore passando per lo stomaco, ho subito pensato a Sergio. E alla storia che amava ripetere di quando aveva visitato il penitenziario di Arezzo, dove alcuni carcerati gli avevano detto di essere preoccupati per le imminenti elezioni. Temevano che il vincitore avrebbe tagliato i finanziamenti a un programma di formazione e orientamento che era la speranza che li faceva tirare avanti. Era vita. “Questo è il senso dell’impegno politico, per questo serve, per loro”: ti ripeteva a martello alla fine del racconto. Fare politica per Staino, da uomo di sinistra, voleva dire prendersi cura degli ultimi tenendo insieme anarchia e riformismo, sogno e concretezza. Perché il sol dell’avvenire ti serve a illuminare il cammino, a far crescere piante e germogli lungo la strada, ma se pensi di trasferirtici finisci per bruciarti. L’anarchia è il sogno di una società dove non ci sono sfruttati e ognuno è libero nella sostanza dei rapporti sociali, non solo nei diritti scritti sulla carta. Il riformismo è lo studio su come avvicinarsi a quel sogno: con quali alleanze sociali, con quali compromessi, capendo come far crescere la voglia di giustizia nel cuore delle persone. L’anarchia senza riformismo è una presa in giro: “starsene con una bandiera rossa in mano sullo scoglio, bella soddisfazione”, per dirla con le sue parole. Ma il riformismo senza anarchia è carrierismo e opportunismo.

Questa visione, per Staino, portava con sé un corollario preciso, che riguardava l’etica della selezione politica. Un imperativo morale: selezionare una classe dirigente, a tutti i livelli, degna di quel nome. Una classe dirigente che non si limiti “a fare discorsi belli”, ma si cimenti con la fatica dello studio, dell’ascolto, delle soluzioni possibili. Le arrabbiature contro Tizio o Caio non erano mai personali, dettate dallo scontro tra opposti narcisismi. Quello che lo mandava su tutte le furie non era un’idea diversa dalla sua, ma fare politica, scrivere o impegnarsi nel dibattito pubblico con superficialità, pensando alla propria carriera o al proprio ego, piuttosto che ai carcerati di Arezzo.

Ciao Sergio, grazie per averci trasmesso questa voglia di impegnarci, ognuno a modo suo, con quel che abbiamo e dove siamo. Continueremo a coltivarla, come ci hai insegnato. E non arrabbiarti troppo se ci capiterà di sbagliare di nuovo. Anzi, arrabbiati pure, perché l’eco delle tue rimbrottate ci arriverà comunque, aiutandoci – spero – a far meglio.

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