Gli ultimi giorni del 2010 ci hanno consegnato l’approvazione definitiva della legge Gelmini sull’università. Il presidente Napolitano, con l’abilità mediatica che lo contraddistingue, ha firmato la legge suggerendo alcuni ritocchi che non ne toccano l’impianto ispiratore. Ma, soprattutto, ha posto l’accento sulla necessità di individuare le risorse e gli strumenti attuativi in grado di far funzionare la riforma. La partita decisiva comincia adesso. La legge Gelmini sarà l’ennesimo esempio di riforma “manifesto”, sventolata come bandiera ideologica in fase di discussione, ma poi destinata a rivelarsi un buco nell’acqua in fase d’attuazione? Oppure riuscirà ad aprire e rendere più selettiva l’università italiana? E il Pd che ruolo giocherà in questa partita?
L’immagine che il Pd ha trasmesso durante la discussione della riforma, al di là dei meritori emendamenti “meritocratici” presentati da alcuni parlamentari, non fa troppo sperare. Si è gridato alla distruzione dell’università pubblica, dando l’idea che la legge Gelmini fosse una misura efficace (capace di incidere sulla realtà) ma nella direzione sbagliata. Mentre, al contrario, si tratta di una misura che va nella direzione giusta, ma rischia di rivelarsi del tutto inefficace.
La società della comunicazione ha i suoi riti. E salire le scale per andare sui tetti, senza lanciare messaggi forti, finisce per trasmettere l’immagine di un Pd schiacciato sulle voci della contestazione alla Gelmini. Voci che, al di là del giusto afflato per il miglioramento dell’università italiana, rimandano spesso a messaggi contradditori. A volte, sembra che le contestazioni siano incentrate solo su un problema di scarsità dei fondi (dimenticando che dare più soldi a questauniversità, senza cambiare radicalmente gli incentivi di chi ci lavora, finirebbe per aggravarne i problemi). Altre volte, si sente tacciare qualsiasi obiettivo di valutazione e selezione tra atenei e dipartimenti come fonte di ingiustizie e squilibri tra discipline e territori. Anche il tema della “precarizzazione” dei giovani ricercatori rimanda all’idea che si potrebbe risolvere tutto con la stabilizzazione di chi già lavora nell’università (negando che tra i precari alcuni hanno sbagliato mestiere e che la selezione dovrebbe escludere corsie preferenziali; la meritocrazia, piaccia o no, ha i suoi costi). Contestazioni del genere rischiano di perpetuare un’università che produce bassi standard di qualità e profonde disuguaglianze (tra chi può o non può permettersi di comprare altrove un’istruzione di qualità; tra chi ha o non ha bisogno di un’istruzione di qualità per fare strada, perché tanto dispone di altre risorse familiari o amicali che lo sorreggono).
Il Pd dovrebbe lanciare proposte volte a far capire che, sì, la legge Gelmini è un primo passo nella direzione giusta su alcuni temi, ma rischia di non incidere abbastanza sulla realtà dell’università italiana. Cosa si può fare (di più), allora?
Primo. Ben venga l’introduzione di un sistema di valutazione della qualità del reclutamento dei docenti e della loro attività di ricerca. Ma non si capisce il senso di porre un limite massimo a questo criterio, stabilendo che una “quota non superiore al 10 per cento del fondo di funzionamento ordinario” sarà allocata sulla base della valutazione. Il massimo dovrebbe essere trasformato in un minimo: almeno il 10 per cento delle risorse (meglio se il 20) dovrebbero rispondere a una seria valutazione della produttività scientifica (ovviamente, introducendo risorse e incentivi che consentano all’ANVUR di realizzarla).
Secondo. Ben venga un criterio di accesso alla carriera universitaria che non preveda la figura dei ricercatori a vita, ma stabilisca un percorso verso la stabilizzazione (tenure-track) che passi per una rigorosa valutazione della produttività scientifica. Ma se si chiede ai ricercatori di scommettere sulle proprie capacità, lo scambio deve essere equo. Stipendio, strumenti di ricerca e sicurezza del contratto da professore di seconda fascia nel caso si superino i requisiti di produttività al termine del contratto a tempo determinato devono essere all’altezza del rischio che si chiede di affrontare.
Insomma, il Pd dovrebbe dire apertamente di essere disponibile ad accordi bipartisan per migliorare le parti valide (almeno in linea di principio) contenute nella riforma. Ma non solo. In maniera ancora più ambiziosa, dovrebbe rilanciare la palla su temi come l’abolizione del valore legale del titolo di studio (perché la concorrenza tra atenei si basi sulla qualità e non sull’offerta di un pezzo di carta), la separazione tra medicina e le altre facoltà, o la liberalizzazione delle rette (per superare un metodo di finanziamento fortemente regressivo che paga gli studi delle classi medio-alte con le imposte di quelle basse). Sogni ad occhi aperti? Può darsi. Ma basterebbe che la voglia di tornare a fare politica, per una volta, avesse la meglio sull’immobilismo di chi pensa soltanto alla propria sopravvivenza, senza capire che, col passare del tempo, sarà proprio quell’immobilismo a decretare la sconfitta definitiva di un’intera classe dirigente. Insomma, sull’università come su molti altri temi dirimenti per il futuro del paese, i leader del Pd, per dirla con Ignazio Silone, si comportano come quei leader delle democrazie in crisi la cui arte di governo “sembra consistere nell’incassare degli schiaffi per non ricevere dei calci, nell’escogitare sempre nuovi compromessi per attenuare i contrasti e tentare di conciliare l’inconciliabile”.
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