In che modo l’Italia può superare almeno temporaneamente il vincolo del 3 per cento sul disavanzo? Non ci sono solo le regole europee da tenere in considerazione, ma anche le reazioni dei mercati finanziari. Tutto si gioca sulla credibilità delle riforme.
IL MITO DELLA PROCEDURA PER DISAVANZI ECCESSIVI
Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, nei suoi discorsi d’insediamento in Parlamento non ha fatto cenno alla necessità, da lui stesso avanzata in più occasioni come segretario del Pd, di recuperare margini di flessibilità nella politica fiscale, superando, ancorché solo temporaneamente, il famigerato vincolo del 3 per cento. Ha fatto bene. Meglio non scherzare con la sensibilità dei mercati e dei partner europei. Per azionare quella leva senza creare pericolosi effetti collaterali, serve una credibilità che va prima conquistata sul campo con azioni concrete.
Il tema, però, resta sullo sfondo. Quali sono i margini per introdurre questa maggiore flessibilità? È davvero possibile “aggirare” la regola del 3 per cento? Per rispondere senza cadere nella demagogia, bisogna partire dai vincoli con cui un’esigenza del genere si deve confrontare.
Partiamo dai vincoli europei. Il limite del 3 per cento deriva dal Patto di stabilità e crescita (Psc), che introduceva regole di disciplina fiscale poi rafforzatesi nel tempo attraverso i cosiddetti “Six-pack”, “Fiscal Compact” e “Two-pack”: fino a creare un sistema di procedure, vincoli e sanzioni a dir poco bizantino. Il mancato rispetto del limite fa scattare la “procedura per disavanzi eccessivi” (Pde). A questo proposito, ci sono due notizie: una cattiva e una buona.
Cominciamo dalla cattiva notizia: la Commissione Ue non sembra intenzionata a consentire alcun margine di flessibilità. Nei mesi scorsi, abbiamo assistito a continue prese di posizione della Commissione in cui si minacciava l’applicazione all’Italia della Pde, dalla quale eravamo appena usciti, anche per lo sforamento di un solo decimale. Il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, si è dichiarato favorevole a concedere più tempo per il risanamento in cambio di “un piano di riforme”. Ma coloro che propongono di negoziare uno sfondamento del 3 per cento si illudono. La Commissione, anche per ragioni di reputazione, è molto rigida verso un paese con un rapporto debito/Pil che ha ormai superato il 130 per cento. Piaccia o no, è così.
La buona notizia è che il rientro nella Pde non avrebbe, di per sé, significative conseguenze. Questo perché le normali procedure di controllo dei conti pubblici nazionali da parte della Commissione sono divenute così penetranti che, di fatto, essere o no sotto la Pde non fa molta differenza. Il cosiddetto “semestre europeo” comporta già una serie di passaggi stringenti, riassunti nello schema qui sotto (tratto dal sito dell’Ue). Chissà perché, tra l’altro, lo si continua a chiamare “semestre”, anche se i suoi adempimenti vanno in vacanza solo ad agosto. La Legge annuale di stabilità (l’ex Finanziaria), il Piano pluriennale di stabilità (che delinea gli obiettivi di medio termine della finanza pubblica), il Piano nazionale di riforme (che determina gli obiettivi economici di medio termine) sono sottoposti al vaglio della Commissione e del Consiglio europeo.
Che cosa comporta in più la procedura per disavanzi eccessivi? Solo la possibilità di multe, che però non sono mai state applicate e quindi non sono granché credibili. Prima di arrivarci ci sono diversi passaggi che richiedono tempo. Sulla carta, la procedura sanzionatoria è stata accelerata dai “pack”, ma al momento nessuno vi è incorso, anche perché molti paesi hanno ricevuto un’estensione del periodo di aggiustamento. Paradossalmente, i paesi che di recente hanno goduto di una certa flessibilità sono proprio quelli sotto la Pde: ad esempio, Spagna, Portogallo e Francia, che hanno ottenuto dilazioni per rientrare nel limite del 3 per cento. Attualmente, i paesi sotto Pde sono 17 e non sembrano avere fretta di uscirne. Fasciarsi la testa per uscire dalla procedura o per non rientrarvi sembra un eccesso di zelo.
Certo, proprio perché le sanzioni non sono mai state applicate, non vuoi essere il primo a riceverle. L’unico vero pericolo della Pde è l’effetto di reputazione. E qui veniamo al secondo vincolo di cui dobbiamo tenere conto: quello dei mercati finanziari. Un paese ad alto debito come il nostro, che emette titoli ogni settimana per molti miliardi, non può permettersi che il rientro nella procedura venga letto come un segno di lassismo sul fronte dei conti pubblici.
Per questo motivo, un eventuale ingresso nella Pde dovrebbe far parte di un strategia precisa e ben comunicata, che potremmo riassumere così: facciamo alcune riforme strutturali e riduciamo la spesa pubblica, abbassando allo stesso tempo le tasse; l’eventuale temporaneo sforamento del 3 per cento si accompagna ad azioni capaci di aumentare il potenziale di crescita, rendendo perfino più credibile la riduzione del rapporto debito/Pil nel lungo periodo. Solo a queste condizioni, la Pde resterebbe un mero passaggio burocratico, senza alcun contenuto informativo e senza alcun significato politico. Anche il vincolo del pareggio strutturale in Costituzione non sarebbe un ostacolo insormontabile su questo percorso, vista la fase negativa del ciclo e la discrezionalità della definizione.
Tutto si gioca, ovviamente, sulla credibilità delle riforme. Non possiamo cavarcela con qualche piano generico. Servono azioni concrete per semplificare burocrazia e fisco, per aprire i mercati dei servizi, per cambiare gli incentivi di chi lavora nel pubblico impiego, per ridurre i tempi e la volatilità della giustizia. E la strategia risulterebbe ancora più credibile se accompagnata da un piano di dismissioni che abbatta subito lo stock del debito.
UNA SECONDA POSSIBILITÀ: GLI ACCORDI CONTRATTUALI
Se vogliamo evitare la Pde, ma allo stesso tempo avere qualche margine di flessibilità in più, esiste una seconda possibilità. Non è priva di incognite, perché dipende dal consenso degli altri governi europei, e risiede nei cosiddetti “accordi contrattuali” (contractual arrangements), proposti dalla Commissione nel marzo scorso. Si tratta di programmi di riforma concordati tra un governo nazionale e la Commissione stessa, che dovrebbero essere approvati dal Parlamento nazionale e dal Consiglio europeo, per poi essere attuati secondo una tabella di marcia prefissata. In cambio di questi impegni, un paese potrebbe ricevere assistenza finanziaria dall’Ue, per coprire i costi delle riforme programmate nel breve periodo. La proposta della Commissione è stata approvata in linea di massima dal Consiglio europeo dello scorso dicembre, che però ha rinviato al prossimo ottobre la finalizzazione del nuovo strumento e la definizione dei relativi dettagli.
Il Governo italiano potrebbe sfruttare lo strumento in due modi. Il primo consiste nel presentare un piano di riforme e chiedere alla Ue un contributo per coprirne i costi di breve periodo. Per esempio, il Jobs Act delineato dal nuovo Governo comporta alcuni costi rilevanti, a cominciare dal sussidio universale per chi perde il lavoro. Un secondo esempio è l’eventuale riduzione del personale nella pubblica amministrazione, dove ogni recupero di produttività non può che passare da una riforma del rapporto di lavoro nel pubblico impiego e dall’innesto di competenze meno obsolete: un intervento simile dovrebbe essere accompagnato da forme ad hoc di ammortizzatori sociali. Se questi costi (almeno in parte) venissero indirettamente coperti dal bilancio comunitario, potremmo fare quelle riforme senza infrangere la soglia del 3 per cento.
La seconda strada, forse più fattibile, consiste nel concordare una modifica degli accordi contrattuali con i partner europei, anche sfruttando la nostra presidenza di turno nel secondo semestre di quest’anno. In pratica, si potrebbe prevedere che gli le riforme strutturali possano essere scambiati con maggiori margini di flessibilità di bilancio. L’Italia non ha problemi di accesso ai mercati. È in grado di finanziare gli interventi temporanei di cui sopra. Gli accordi contrattuali dovrebbero solo concedere questa flessibilità nello sforamento del deficit, a patto che se ne stabiliscano i tempi di rientro e si approvino, nero su bianco, riforme in grado di rilanciare la crescita potenziale.
Insomma, le regole fiscali sono un po’ come i controlli di velocità: di solito cerchi di rispettarli, ma se scatta l’emergenza premi il piede sull’acceleratore e metti in conto il rischio di una multa. L’importante è non esagerare, mettendo a rischio la propria sicurezza e quella degli altri.
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