Con un articolo dal pensiero tutt’altro che debole, Gianni Vattimo (l’Unità, 14/12) invita alla riscoperta di Marx. Paolo Sylos Labini (l’Unità, 28/12) gli ricorda giustamente che “se vogliamo percorrere la via delle riforme dobbiamo liberarci di Marx che delle riforme (…) era nemico giurato”. Giuseppe Tamburrano (l’Unità, 2/1) plaude alla rilettura di un filosofo che “è e sarà sempre attuale”. In verità, che Marx sia un gigante del pensiero è fuori discussione (come ci ricorda persino l’Economist). Ma lo è per l’importanza dei suoi strumenti di analisi sociologica e storiografica, piuttosto che per la validità dell’analisi socio-economica (per non parlare della piattaforma politica).
La posizione di Vattimo, invece, ruota intorno a due tesi che non fanno i conti con le debolezze di fondo del marxismo. Prima tesi: leggendo le statistiche Usa che segnalano un aumento delle disuguaglianze e una concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi straricchi, “non possiamo non ripensare con meno scetticismo alla previsione marxiana circa la progressiva proletarizzazione del mondo”. Seconda tesi: se la sinistra non ha un progetto, “è anche e soprattutto perché si rifiuta di prendere atto di questa rinnovata “verità” di Marx; ossia della crisi non puramente temporanea dell’organizzazione capitalistica dell’economia”.
La prima cosa che stupisce è la mancanza di una solida teoria che giustifichi previsioni così fosche. Tutto quello che viene offerto è il riferimento a qualche statistica sull’aumento della dispersione dei redditi. Si citano Krugman e Stiglitz (due economisti che professano idee liberal e contribuiscono all’aumento della disuguaglianza, visto che insegnano in università che li hanno strappati alle concorrenti con stipendi da capogiro), ignorando che se qualcuno parlasse loro di crisi irreversibile del capitalismo otterrebbe in cambio una risata. La seconda cosa che stupisce è la leggerezza con cui si annuncia che non esistono alternative alla bancarotta del capitalismo. Il rilancio della
competitività, ottenuto attraverso l’aggiustamento strutturale dell’economia nel contesto di una nuova divisione internazionale del lavoro, viene visto come un pagliativo dai costi sociali troppo alti.
Cos’altro si possa fare, non viene detto. Una simile leggerezza rischia di lasciare spazio a un’unica prospettiva: all’utopismo antioccidentale, inteso come ricerca di un modello di virtù che fuoriesca dall’Occidente corrotto. Questa prospettiva è più antica della sua ultima incarnazione, l’illusione comunista (si pensi al mito del buon selvaggio). Ma c’è un elemento che contraddistingue gli utopisti del terzo millennio dai loro predecessori: la mancanza di un paradiso terrestre da recuperare. In assenza di un modello alternativo, resta solo la carica distruttiva e antioccidentale.
È curioso: sia le fonti che Vattimo cita (Krugman e Stiglitz) sia l’unico accenno propositivo che ci offre (smetterla di credere nelle virtù taumaturgiche del libero mercato), appartengono a pieno titolo alla prospettiva di una sinistra liberale e riformista. Ma la profezia che fa loro da sfondo – la proletarizzazione di quei ceti che nel corso del ‘900 sono diventati intermedi nonostante le previsioni di Marx e a conferma di quelle di Toqueville – contrasta del tutto con quella prospettiva. C’è da sperare che, nonostante sia un ottimo filosofo, Vattimo non valga granché come profeta. E, francamente, qualche indizio in tal senso non manca. Se Marx aveva l’attenuante di vivere nella fase incipiente del moderno sviluppo capitalistico, contrassegnata da grandi contraddizioni, oggi non possiamo appellarci a niente del genere, visto che la nostra epoca ha già conosciuto il New Deal di Roosevelt, le conquiste socialdemocratiche e la capacità del capitalismo di autoregolarsi attraverso il processo politico. Se proprio si deve fare una previsione, perché non azzardare che, di fronte alle sfide della globalizzazione, l’Occidente saprà offrire di nuovo una risposta adeguata con un abile mix di democrazia, libero mercato e intervento pubblico a fini regolativi o redistributivi? Forse perché le previsioni meno catastrofiche – come i film a lieto fine – non sono “politically correct” per una parte della sinistra? O forse perché è più facile preannunciare l’ora del giudizio universale, piuttosto che avanzare proposte in grado di rinviarla?